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Giuseppe Parini

 

Lettera all’Abate Soresi

“sui pregiudizi delle umane lettere”

 

 

 

Edizione di riferimento

da: Tutte le opere edite e inedite di Giuseppe Parini raccolte da Guido Mazzoni, Firenze D. Barbèra editore, 1925

SUL TESTO.

Seguo, salvo qualche lievissima modificazione della grafia e dell’interpunzione, la stampa Due lettere intorno al libro intitolato « I Pregiudizi delle Umane Lettere »; Milano, nella Regio-Ducal Corte; con licenza de’  superiori; 1756. In 16°, pagg. 70 num.; la 71 ha l’imprimatur, la 72 è bianca. La lettera del Parini comprende le pagg. 1-28 (le seguono i luoghi del Segneri e del Bandiera). L’altra lettera, che è diretta a lui, di Pier Domenico Soresi, comprende le pagg. 45-70. L’imprimatur è in data 5 luglio 1756.

Voi mi comandaste, a questi giorni addietro, ch’io leggessi il libro del Padre maestro Alessandro Bandiera intitolato: I pregiudizii delle umane lettere, e che dappoi ve ne dicessi quel ch’io ne sento. Per verità, Io aver voi confidato di troppo nella debolezza del mio giudizio non mi debbo scusar per verun conto dall’ubbidirvi; nè il nome, nella letteraria repubblica chiarissimo, di quello scrittore, m’ha a rattener punto dal palesarvi liberamente il mio parere sull’opera di lui. lo vi protesto però che il solo amor della verità fammi pôr mano alla penna; e che, dove il mio giudizio singolarmente irragionevol sembrasse, voglio che sia soggetto al parer de’ più e meglio intendenti nomini che l’opera leggeranno del Padre Bandiera. Io ho vedute, molto prima d’ora, tre altre onorevoli statiche di questo autore. Due le ho scorse leggermente perentro, siccome colui che necessità di leggerle non avea; cioè i due volgarizzamenti, l’uno delle Vite di Cornelio Nepote, l’altro delle Orazioni di Cicerone. Esse mi parvero senza dubbio opere utilissimo agli studiosi, perocchè quivi il traduttore ha con assai diligenza conservate le bellezze dell’originale, e convenevolmente espressa la forza e l’energia del latino linguaggio. Io oso dir che la traduzion di Cornelio è assai buona, e quella di Cicerone, indubitatamente, la migliore di quante perinsino a qui ne sieno state fatte nella nostra lingua, se noi non ne vogliamo eccettuare alcune orazioni traslatate da messer Cornelio Frangipane, dal Bonfadio, e dal Tagliazucchi, uomo da non lasciarsi dopo alcun altro. Ei non si vuol negar però che anche migliori traduzioni non se ne possano fare in avvenire; il che di leggieri mi concederà, il medesimo Padre Bandiera, principalmente intorno a ciò che riguarda alla purità dello scrivere italiano e allo sfuggimento delle affettazioni. La terz’opera, ch’io vidi del Padre Bandiera, è quella ch’egli con un nome, per dir così, procelloso e sesquipedale ha chiamata Il Gerotricamerone. Le larghe promesse del frontispizio mi allettarono ad aprirne il libro ridendo; nè prima cominciai a leggerlo, che stomacommi l’affettatissima e storta imitazion del Boccaccio, in mezzo a rancide voci ed a gramaticali errori, che facean loro un non disconvenevol corteggio. Per la qual cosa io fui costretto di chiuderlo bentosto; se non ch’io diedi paranco un’occhiata alle proposte del frontispizio, compatendo que’ valorosi ingegni che son di se medesimi così soverchiamente invaghiti. Io ho voluto premetter lo cose dette finora, per mostrarvi che il nome dell’autore dell’opera De’ prepiudizii non è sì sconosciuto ed oscuro, che non sia potuto, giugnere a’ miei orecchi, lontani dal bollor più grande delle letterarie faccende. Ora io verrò sponendovi l’oppinion mia intorno al libro che voi m’avete comandato d’esaminare, cioè De’ pregiudizii delle umane lettere. Non ragionerò io punto de’ pregi di quest’opera. Consistono essi specialmente nelle cose che ci si dicono intorno alla maniera dell’insegnare, le quali, nel vero, e sode e chiare e molto non sono. Ci si conosce per entro lo spirito del Padre Bandiera, il qual mostra che desiderosissimo sia del pubblico bene. Io m’atterrò soltanto a parte di qua’ difetti ch’io ho potuto rilevar leggendo secondo l’ottusità dell’intelletto zelo: e comecchè io sappia ohe questi ancora saranno ottimamente scoperti da voi, che intendentissimo siete e delle bellezze della nostra lingua assiduo vagheggiatone, ad ogni modo io ne toccherò qualche cosa per soddisfare almeno in parte all’obbligo che vi tengo in grazia del vostro comando. Il principal difetto, al qual si posson ridur tutti gli altri che mi son venuti scoperti in quest’opera, e così in tutte le altre del Padre Bandiera, si è la troppa estimazione in che e’ mostra di tener se medesimo; il che apertamente si comprende e da’ titoli delle opere sue e dal restante di esse: nè solamente dal decider ch’e’ fa troppo liberamente sulle opere degli uomini grandi, ma eziandio dal propôr se medesimo per esemplare altrui. Le quali due cose, quanto debbano esser lontane dalla penna d’un uom savio, siccome egli è, ognun sel vede, che fiordi conoscimento abbia della modestia ch’issar si vuole scrivendo. Ma quanto in ispecie debbano star lungi dal Padre Bandiera, tenterò io ora di mostrarvi dalla presente opera sua, non già per vaghezza di detrarre in verun conto al merito ed alla fama di quello scrittore, ma puramente per palesarvi ciò che in lui mi dispiace; com’altri farebbe d’una bellissima donna, il troppo fasto rimproverandone e ’l troppo conto in ch’ella tiene la sua bellezza.

Or io, lasciando dapparte ogni altro scrittore sulle cui fatiche troppo sicuramente decida il P. Bandiera, prenderò solamente a ragionar di ciò ch’all’immortal Segneri appartiene; il che servirà d’argomento a mostrar quanto, almeno apparentemente, in modestia pecchi quel per altro valoroso senese. Imprende egli addunque, nella terza parte e nel capitolo terzo dell’opera sua, ad esaminare i pregi e i difetti del Quaresimale di Paolo Segneri. Quivi tratta egli lungamente della bellezza di quelle prediche; e, commendandone giustamente lo autore, fa mostra insieme e d’ottima critica e di perfetto giudizio. Ma dove egli discende a favellar del linguaggio adoperato nel Quaresimale, com’ei lo chiama, segneriano, quivi egli, uscendo del seminato, tutta la più laudevol modestia lascia da un lato, trasportato, cred’io, dal troppo zelo della boccaccesca eloquenza. Comincia egli a dichiarar francamente che il Padre Paolo Segneri « o non ha letto giammai i buoni scritturi toscani; o, se gli ha letti, non è giammai entrato nel gusto della nostra lingua ». Le quali due proposizioni chi non vede apertamente quanto non pure appaiano di troppo arrischiate a’ semidotti, ma tali sieno eziandio di fatti senza dubbio veruno? Come avrebb’egli potuto il valoroso gesuita, in tempi alle buone lettere contrariissimi, scriver sì corrottamente nulla toscana grammatica, siccom’ e’ fece, e come dal P. Bandiera n’è conceduto, s’egli sulle scritture de’ migliori toscani il vero e diritto uso della nostra lingua non avesse studiato? Come avrebb’egli potuto dir, siccome ei fa nella prefazione alle sue prediche, d’aver proccurato [sic] « nella elocuzione di mettere ogni suo studio? », d’aver  riputato suo debito il sottoporsi con rigore non piccolo a quelle leggi che son nella toscana lingua le riverite generalmente e le rette ? » Egli è forza addunque che ’l Segneri vegliasse nulle opere più purgate de’ toscani scrittori, per ivi apprendere e ’l più puro linguaggio e la miglior locuzione. Nè soltanto l’asserzion sua, o lo sperimento ch’ei ne diede, ci debba assicurar di ciò, ma la relazion di coloro eziandio, che lasciate hanno onorevoli memorie di quel grand’uomo.

Che ’l Segneri poi non sia giammai entrato nel gusto della nostra lingua, niuno insino ad ora ha ardito di asserir così ampiamente, fuorchè il P. Bandiera. Egli stima, siccome cred’io, che ’l gusto della nostra lingua consista soltanto in un ben tornito periodo, che per tortuose vie si ravvolga in se stesso a guisa d’un labirinto, o in un zibaldoncello di rancide voci e di affettate maniere di dire, le quali poi si gettino senza risparmio in ogni capitolo d’un’opera scritta o in ogni pagina d’un’orazione, siccome coi comprenderete in appresso lui medesimo aver fatto. Cotale abuso non troverem noi nelle opere tutte del Padre Segneri, il quale in ogni luogo ha quasi sempre fatt’uso di buone voci; e frasi ha adoperate e costruzioni sempre mai naturali e proprie della toscana lingua. Si possono egli forse mostrar negli scritti di lui vocaboli o modi di dire vieti e muffati, o vili e barbari, e per niente accettati dall’uso? No certamente: dunque convien creder che ’l Padre Segneri entrasse al par d’ogni altro nel gusto della nostra lingua, dappoichè egli seppe scriver colle voci e colle frasi di quella. Che s’egli di troppo sublime stile alle occasioni non ai servi, e quelle arti trascurò che conciliar lo potevano alle prediche sue, di ciò debb’egli esser ripreso dal retore, a cui s’appartiene il giudicar dello stile che è comune ad ogni linguaggio: al grammatico non già, che i confini non dee varcar della propria favella; se già non s’hanno a confondere insieme due con disparate cose. Laonde altri potrebbe dir bensì, a un bisogno, che il Padre Segneri con mala rettorica scrisse; ma non già con cattivo linguaggio: per quale guisa medesima che niuno negar non potrebbe che Giovanni Villani, verbigrazia, scritto abbia pulitamente nella toscana lingua, e per conseguente conosciutone il gusto, comecchè egli poi seguito non abbia lo stile istorico siccome il Guicciardino. E siccome non si dee dir che ’l Passavanti non sia entrato nel gusto della nostra lingua, perchè lo stil del Boccaccio non tenne o nella scelta o nella disposizion delle parole, così nè manco del Segneri si potrà il medesimo asserire.

Ma il P. Bandiera non si contenta solo di trattare immodestamente, e ciò fuor d’ogni ragione, un sì famoso scrittore; che anzi, levando in alto lo staffile e faccendogli [sic] del pedante addosso, si pone egli medesimo a rifargli il latino. Distende egli però, siccome ci dice, in toscana lingua, prima un caso narrato dal Segneri nell’undicesima predica, dappoi l’esordio della predica prima dello stesso; e molte cose ci cangia or a piacer suo e senza ragione, ora, ed il più delle volte, a grandissimo torto. Di qui potete voi comprender quanta sia stata l’animosità del P. Bandiera, osando esso pôr mano sul dettato d’uno scrittor così chiaro. Egli è certo che tutti quanti gli autori, per illustri ch’ e’ si possan essere, han qualche difetto. Questo non si può negar per niuna maniera né d’Omero, nè di Demostene, nè di Vergilio, nè del medesimo Cicerone; ma ad ogni modo non è lecito ad alcuno, senza taccia di solenne arroganza, di corregger l’opere altrui; e tanto meno le opere grandi, le quali, per le  somme bellezze ch’esse contengono, hanno acquistato ragion di non esser tocche nemmeno nelle lor macchie: e per certo modo sacrilego dee riputarsi colui che a migliorar vuol porsi lo scritto d’un celebre autore. Però il pubblico consenso de’ letterati ha sempre applaudito a coloro che modestamente avvisarono altrui d’un’opera difettuosa; ma per lo contrario garrito a que’ burbanzosi che pedantescamente han messo la penna negli altrui scritti. Che se colui, che di migliorare intende alcuna cosa, la peggiora e la guasta in quella vece, vie più arrogante chiamar si dee; onde anche per questa parte da riprender sarebbe il P. Bandiera, il quale, cotal sopruso faccendo [sic] al P. Segneri, non pur migliorato non lo ha, ma renduto, in iscambio, peggiore in quel lato ch’ e’ lo prese ad emendare.

Non per altro dic’egli sè aver tolto ad ammendare il Segneri, che per mostrar come il dettato di lui a espor si possa in toscana lingua, che fu propria de’ migliori scrittori: convien dunque che nella miglior toscana lingua il Segneri non abbia scritto. E siccome il miglior toscano consiste nelle frasi e nelle voci de’ migliori scrittori; così bisogna che quelle frasi e quelle voci posto in uso dal Segneri di genere così fatto non sieno. Or veggiamone con lo sperimento la verità. «Sentite caso terribile, e inorridite», dice, per esempio, il Segneri: corregge il Bandiera: «Ahi tristo e spaventevole caso!». Per verità, che, se noi parliam di linguaggio, son di sì buon toscano le voci della prima maniera quanto quelle dell’altra: che se dello stile, ed eccoci entrare in ciò che è fuor di proposito, perchè nulla ha che far colla lingua. Ma procediamo più avanti. «Invaghitosi di una certa fanciulla», dice il Segneri; e ’l Bandiera: «in amore accesosi d’una fanciulla». «Invaghirsi» non significa egli nobilmente e con più brevità, lo innamorarsi? non è egli maniera frequentissimamente adoperata presso il Boccaccio? Or perchè sostituirvi quell’altro più affettato modo di dire: «in amore accesosi d’una fanciulla?». Vediam di peggio. Scrive il Padre Segneri nell’esordio della prima predica: « Un funestissimo annunzio son qui a recarvi, o-miei riveriti uditori; e vi confesso che non senza una estrema difficultà mi ci sono addotto». Ma così rifà il Bandiera: «Un funesto e fiero annunzio sono io questa mane quassù asceso ad arrecarvi, riveriti ascoltatori; ma non senza un’altissima renitenza mi vi sono condotto». Ponghiam da banda ogni altra cosa, ch’ei qui non migliora punto; e solo attenghiamoci a un marrone ch’egli ci appicca. Dice il Segneri: «son qui»; e ci fa corrisponder quel «mi ci sono addotto», cioè «qui, in questo luogo». Ora il Bandiera in iscambio ci pon «vi», che per lo contrario «quivi» significa od «in quel luogo». Io mi sare’ riso di questa gentil correzione, se veduto non avessi ch’ei tien carissima questa particella; perocchè nel decorso del suo libro usurpa tuttavia per essa quel luogo ch’al «ci», suo fratello, giuridicamente s’apparterrebbe. Ma che accade ch’io m’abusi e della pazienza e dell’avvedutezza vostra, tutte quelle parti riandando ch’egli ci ha rendute peggiori, o per lo manco non migliorate assolutamente? Io tengo per fermo che, qualunque uom  discreto legga que’ due capi, non potrà far di non meravigliarsi, veggendo a quanto tristo giudizio abbia portato qullo scrittore una troppo smoderata foia di render lo altrui cose migliori. S’io ho a dire il vero però, sembrami che, quantunque il P. Bandiera abbia in molti luoghi del suo libro giudiziosamente distinto tra lo stile e ’l linguaggio, e spezialmente in questo medesimo capitolo terzo della terza parte; dimenticatosene però nell’atto del giudicare, abbia confusa inavvedutamente l’una cosa coll’altra; imperciocchè, siccome appar dalla correzion fatta del Segneri, mostra lui aver ciò fatto più ad intendimento di sollevarne lo stile che di render più toscana la lingua; del che si dichiara eziandio apertamente, riguardo a ciò che spetta alla diversa esposizion dell’esordio sopraccennato. Che s’egli ha avuto mente a ciò, farò in appresso vedere s’egli abbia conseguito il suo fine o se anzi all’apposito ne sia andato totalmente lontano. Facciam ritorno al caso narrato dal Segneri e diversamente esposto dal P. Bandiera. Ma egli è d’uopo ch’io vi rammemori dapprima ciò che Cicerone lasciò scritto nelle Partizioni; intorno a quella parte del nostro discorso che chiamasi narrazione. «Soave narrazion - dic’egli - è quella che ne fa meravigliare, aspettare e a non pensato fin riuscire; quella che di tanto in tanto ne muove gli animi; e colloquii di persone introduce, o doglianze, e sdegni, e paventi, e letizie, e cupidità». Ora cotale per lo appunto è l’insigne narrazione che ’l Segneri fa del caso al malvagio cavaliere accaduto. Quivi ne fa meravigliar egli alla prima e paventare a un tempo con quel «Sentite caso terribile, e inorridite», con oratoria sicurezza pronunziato dall’alto: aspettar ne fa il malato introdotto colla prontezza ch’ei dimostra alle persuasioni del frate; la quale noi speriamo doverlo a pentimento condurre, e che poi con esito inopinato riesce a così tristo fine. Opportuni, veri e naturali sono i colloquii tra l’infermo e ’l religioso che metton sottocchi la cosa e meravigliosamente servono a muover gli affetti. Or gioia, or tèma, or querele, or minacce si scorgono in colui che conforta, ed empio sdegno o scellerata cupidità finalmente nel moribondo. Questa narrazione è semplice, chiara, evidente; è abbigliata, ma senza invernicatura (sic] e senza affettazione: tale in somma da servir di modello, e da non esser tocca senza risico di guastarla. Ciò ch’io dico non ha bisogno di pruova, chè abbastanza è chiaro per se medesimo. Il sol P. Bandiera non n’è contento; anzi, credendosi di raffinarla, l’ha voluta toccare in molte parti, e principalmente in quelle ov’essa è, per così dir, più fragile e più dilicata. Toglie egli nel bel principio il «Sentite caso terribile, e inorridite!». La qual figura non è da dir quanto conduca al fin dell’oratore, cioè di richiamar l’attenzion degli uditori, come ad un importantissimo pento, e di spaventare i peccatori che indugiano; i quali col terrore si voglion vincere e gli sbigottimenti, non già con teneri e compassionevoli affetti. Ma il correttore, nulla badando alla forza delle parole, e che animate si debbono anche supporre dalla voce e dalla azion dell’oratore, le cangia in quel freddissimo «Ahi tristo e sparentevole caso!» Il che in quel luogo starebbe assai meglio in bocca d’una dolente femminella, che con una cotal fievole e sottil bocina il lasciasse scappar tra l’un labbro e l’altro, che ad uno evangelico banditore che con profetica energia dal pulpito fulmini e tuoni. Ridicoloso eziandio si è il posponimento che e’ fa de’ verbi, in quel luogo ove il Segneri narra l’entrar del medico nella stanza dello ammalato, cancellando quell’«entra in camera, s’avvicina al letto, il saluta.», e sostituendovi: «in camera n’entra, al letto s’appressa, il saluta», ecc. Non niego io già che la trasposizion de’ verbi non concilii all’orazione moltissima venustà ed ornamento; ma ciò con più riserbatezza usar si dee che il Bandiera non fa; e per acconcio modo e ad opportuno luogo, non già puerilmente e senza natura, com’egli in questa nobilissima narrazione. E non pure ha sovente il P. Bandiera lo stil del Segneri guasto; ma bene spesso ancora, per voglia di migliorar l’elocuzione, i pensieri stessi rivolti nel contrario senso, siccome egli ha fatto sostituendo a quel «ripigliò l’infermo animosamente», il «ripigliò il coraggioso infermo»; perocchè quivi egli fa dire al Segneri l’opposto di ciò ch’egli ebbe veramente nello animo. Ei volle dimostrar, con quel «ripigliò animosamente», che il malato, e con cenni e con parole, mostrò al di fuori quello animo e quella sicurezza ch’ei non aveva al di dentro, siccome dall’esito si comprende; e ’l P. Bandiera al contrario accenna, con quel «coraggioso», ch’ei fosse realmente coraggioso nella spirito e nella volontà. La qual diferenza [sic] sarà chiara ad ognuno, e specialmente a chi entri ben dentro a conoscer la forza di quell’«il» posto davanti al «coraggioso». Io lascio poi ch’altri giudichi se sia migliorato punto quell’«io son per ubbidirvi» del Segneri, col «sono tutto disposto ad ubbidire a’ vostri consigli» del Bandiera; ove parravvi d’udir ciò che noi udiam tutto giorno per via, di due, che, scontrandosi, l’un chiede: - Come state? e l’altro risponde : -Tutto disposto ad ubbidirvi. - Non si dee però tacer di quello «stomaco» tolto dopo il «cordoglio», ove con una sola parola un bellissimo pensier si perde dell’eccellente oratore. Intese egli di dir che ’l buon religioso, non pur sentiva rammarico e dolore nello estremo e vicin pericolo del prossimo suo, ma eziandio, per lo abito della virtù ch’ei nodriva nel seno, moveagli nausea, e stomaco gli faceva, il lezzo e lo schifo della medesima colpa. De’ qua’ pensieri amendue, comecchè il P. Bandiera non ne tocchi il primo, che forse gli sembrò il più necessario, ne toglie però via il secondo, che non è punto di coperchio, od è senza fallo il più squisito. Oltracciò chi dirà esser più elegantemente detto «acconciare» che «compor le partite?». Chi dirà esser posto a tempo quell’«il Padre soggiunse a tempo», con cui tutta l’evidenza si toglie al dialogizzare, e che niun buon gioco fa essendo letto, e malissimo poi lo farebbe ascoltato? E così «il malato risponde», «esclama il religioso», ecc.: perocchè quivi non si dee giudicar certamente come di pure cose scritte al leggitore, ma come di azioni rappresentate agli uditori, e rendute vive dal gesto, dalle pose e da’ varii tuoni di voce dell’oratore. Io m’avveggo ben io, e voi me ne potreste ripigliare, ch’io ora esco, ora entro, irregolarmente ne’ confini ora dell’invenzione ed ora della esposizione; ma ho io però a tenermi sì stretto tra gli scolastici cancelli, se il P. Bandiera mi fa travviar [sic] coll’inavvertenza del suo giudizio, quando dietro all’una e quando dietro all’altra delle disparate cose? e in oltre non si parrebbe egli forse ch’io volessi scriver, come dir, geometricamente, e con più arte ch’alla natura delle lettere non si confà? Oltre al fin qui detto, non ha avuto punto di avvertenza il P. Bandiera allo appassionato di quella bellissima enumerazione, ove il Segneri, faccendo [sic] come l’ultima scarica, contro all’inndurito cor dell’impenitente, va con meraviglioso accrescimento, siemi lecito di così dire, arietandone l’ostinata volontà. Il Padre Segneri introduce quivi a tale effetto e i santi e la Vergine e Cristo, e finalmente il paradiso tutto; i qua’ nomi essendo per avventura, paruti al Bandiera troppo comuni e volgari, giudicò di doverneli intralasciare, comecchè tutto il patetico e la forza ne andasse dell’eccellente congerie. Questo è forse un mio mal fondato sospetto; imperciocchè non parmi da creder che ad un onorato religioso, qual si è il valoroso P. Bandiera, dovessero putir que’ sagrosanti nomi, che così grati riescono e soavi a’ più perfetti serafini del cielo. Per altro, questo è il comune scoglio ov’urtan coloro i quali, troppo scrupolosamente scrivendo, non pensano che, per quanto aspra e volgare sia una voce, s’ingentilisce e nobile diventa per l’altezza del suo significato. Ma mi conferma nella prima oppinion mia il veder che ’l Bandiera s’è vergognato altresì d’usare i vocaboli di «scomunicato», di «bestia», di «letamaio»; invece de’ quali, a onta d’ogni rettorica energia, ha scritto «reprobo dichiarato», «animale», e finalmente quello affettatissimo «mondezzaio»: il che adoperando (si faccia qui così un pocolin da un lato il rispetto infinito ch’io porto al P. Bandiera, e ceda il luogo alla verità), egli ha mostrato assai poco quel giudizio e quel conoscimento ch’egli ha della forza e del valor delle italiane voci e dell’arte posta in uso da un non volgare oratore; perocchè, se così non fosse, ei non avrebbe levati quello «scomunicato», quel «bestia» e quel «Letamaio», che colla viltà loro tendono ottimamente allo scopo del religioso introdotto, che è d’ingenerare orrore, abborrimento, e che so io, nello animo del peccatore. Resterebbemi ora a dir qualcosa dello snerbato di quel «ruppe in queste precise parole, che di nulla sono da me alterate», invece del «proruppe in questa precise parole, alle quali io mi protesto che niuna aggiungo, niuna levo» del Segneri, e di altre frascherie men rilevanti: ma, perciocchè io ho a fare alcun motto anche intorno all’esordio, io toccherò soltanto una cosa che negli ultimi versi di questa narrazion si legge, ove scorgesi che il correttore, siccome fa pompa della boccaccevole elocuzione, così niun riguardo ha alla pudicizia delle parole e delle espressioni, le quali di leggieri, anzi di necessità, debbono esser tratte in cattivo senso anche da chi troppo scostumato non fosse. Così parla addunque [sic] il Segneri dello ammalato: «Indi, per forza stringendola ed abbracciandola (la donna), tra per la veemenza del male, per la violenza del moto, per l’agitazion dello affetto, esalò sulle sozze braccia lo spirito disperato». E ’l correttore in iscambio dice: «Quindi, recandosi addosso a lei e dandole amorosi amplessi, tra per la veemenza del male, per la violenza del moto e per l’agitazion dell’affetto, sulle sozze sue braccia il fiato estremo esalò, e lo spirito disperato». Dalle quali maniere di favellar del tutto aperte, o anche dalle soltanto equivoche, dee diligentemente guardarsi non pur lo accorto oratore, come il Segneri ha fatto, ma qualunque civile e costumato uomo negli stessi famigliari ragionamenti, siccome il P. Bandiera mostra di aver letto nel Galateo di monsignor Della Casa, ov’egli alcuni esempli cita, e quello spezialmente notissimo dello Alighieri. Ma egli è da perdonar non pertanto a un povero scrittore, che, tutto intento essendo al massiccio del ragionar suo, molte volte non bada allo esterior significato delle parole; siccome io stimo essere avvenuto al Bandiera, non pur qui, ma in più altri luoghi del suo libro, e singolarmente alla pagina quarantasettesima nel primo verso del paragrafo primo e in una voce da lui adottata e adoperata continuamente.

Or conviemmi finalmente passare a mostrarvi per qual guisa il P. Bandiera abbia emendato, o sia rifatto, l’esordio della prima predica segneriana, intorno allo stile. Egli si persuade, al creder mio, che ove periodica sia l’orazione e numerosa, non si abbia poscia a far caso se una parola o un modo di dire ci abbia luogo, oppure ci stia così, come dire, a pigione. Egli molte cose ha o aggiunte o trammezzate nell’esordio del Segneri, ad oggetto, cred’io, d’introdurvi l’armonia e quella musica ch’è propria dell’oratore. Io non starò punto a cercar s’egli abbia conseguito il suo intento intorno a ciò, conciosiachè, a dire il vero, io non ci ho troppo adatto l’orecchio; e, volendone giudicare, io ci farei la parte di Mida. Basterà solo ch’io mi fermi alquanto ad osservar ciò che si riferisce allo stile, e che degno è di maggior riflessione. Comincia pertanto l’esordio della prima sua predica il Segneri con quella gravità ed altezza di stile, che a sommo orator si conviene; semplicemente però e con que’ fregi soli che servono ad abbellir la verità, non già ad infrascarla: «Un funestissimo annunzio son qui a recarvi, o miei riveriti uditori»; il che così cangia il P. Bandiera: «Un funesto e fiero annunzio sono io questa mane quassù asceso ad arrecarvi, riveriti ascoltatori». Ora io sapre’ volentieri da esso Padre per qual ragione egli abbia giudicato di dover tôrre quel «funestissimo» per supporvi «funesto e fiero». Forse ch’egli dubitò non dover bastare allo «annunzio» quello aggiunto superlativo di «funestissimo», ch’e’ volle porvene altri due in quel cambio, comecchè men vigorosi del primo? «Fiera materia di ragionare n’ha oggi il nostre re data», disse il Boccaccio, e d’un solo epiteto s’accontentò; e ’l P. Bandiera, per imitarlo, volle pur dir quel «fiero»; ma, per non iscontentar po’ poi al tutto il Padre Segneri, rappiccinì il «funestissimo», acciocché un po’ di suo al boccaccevol «fiero» cedesse. Ma usciam delle baie. Assai chiaro voi comprendete come punto di forza non si sia aggiunto in tal guisa al pensier del Segneri; anzi quanto crudelmente indebolito si sia con quel «questa mane, quassù asceso», che gli uditori e veggono e sanno ottimamente; e che male sta in bocca di chi mostrar vuol premura e verità nel ragionar suo, e di non avere a perdersi in ciance; ma di voler parlare altrui da buon senno, siccome un sacro oratore, e spezialmente nel primo suo comparir, dee fare. Oltracciò inutilmente s’è mutato l’«uditori» nello «ascoltatori», perocchè amendue queste voci vengono a significare il medesimo nel comune uso degli scrittori, benchè tra’ due verbi, ond’esse son derivate, qualche diferenzia [sic] ci corra. Anzi nel Boccaccio, che ’l P. Bandiera tanto si studia d’imitare, noi troverem bene spesso «uditori» o «ascoltanti», ma «ascoltatori» assai di rado e non mai. Egli è precetto di color che l’arte insegnano del ben favellare; che non debba l’orator fare uso della circonlocuzione ovvero perifrasi, dove esplicar possa il suo pensiere con egual nobiltà e chiarezza, servendosi della propria e natural voce. Il P. Bandiera però, togliendo quel «pesandomi», leggiadrissimo, a1 Segneri, non s’è peritato di scriver: «conciossiacchè troppo grave all’animo mi riesca», che nulla più accresce all’orazione che ’l maggior numero delle parole. Ma così egli avesse pensato ad aggiugner solamente, piuttosto che a levar cosa alcuna dall’eccellente dettato del gesuita; perocchè men fosco per avventura sarebbe apparito il giudizio del correttore. Egli ci ha tolto quel robustissimo «fin dalla prima mattina ch’io vegga voi o che voi conosciate me». Ma Dio buono! Aveasi egli a tôrre una bellezza insigne ad un oratore e riporvi una  freddura, sol perché non s’udiva risonare agli orecchi un noioso e sempre eguale tintinno alla boccaccesca? Forse che il Boccaccio medesimo, e così tutti gli altri giudiziosi e toscani scrittori non sepper variare a tempo le cadenze de’ periodi loro? Leggansi i ragionamenti della Gismonda e di Tito nel Decamerone, i quali, siccome più d’ogni altra parte s’accostano all’orazione, così bastano a mostrare apertamente dove lo stil del Boccaccio s’abbia ad imitar dall’oratore e dove no. Questo medesimo non si dee dir forse del «ve lo dirò», rifiutato, e suppostovi «con tuono libero parlerò?» Troppo lungo io sarei, se io volessi andar dietro alle più minute cose; perlocchè mi convien lasciar dapparte ciò che dir si potrebbe intorno alla nobiltà delle voci adoperate dal Segneri, cioè: «o padroni o servi, o nobili o popolari», e dal Bandiera cangiate in «ricchi e poveri, plebei e nobili». Nulla io dico del «finalmente morire», in due sole voci esposto bastevolmente dal Segneri, e tirato in lungo dal P. Bandiera con questa stucchevole e niente opportuna, anzi contrariissima circuizion di parole: «dobbiam senza fallo pur finalmente una volta condurci all’ora estrema e morire»; nulla dico finalmente dello scriver «non v’ha tra voi» per «non ci ha tra voi », «non v’ha persona» per «non ci ha persona» ; e così di moltissimi altri più leggeri abbagli non degni d’esser considerati da voi. Avvertite così di passaggio alla debolezza di quell’«imperciocchè, ditemi », posto in luogo del «dite» assoluto; a quel forte accrescimento del Segneri «oh cecità! oh stupidezza! oh delirio! oh perversità!», ora monco e privato della voce «perversità» dal Bandiera; e ciò, cred’io, perchè a lui mancò un’altra particella esclamativa da antiporvi, siccome fatto ha al restante, dicendo: «ahi cecità! deh stupidezza! oh delirio!». Badate eziandio a quello «estremo infallibile fine», che in certa guisa ricopre o raddolcisce l’orridezza del vocabolo «morte», cui non isdegnò il Segneri di adoperare; come colui che ’l valor d’ogni menoma paroluzza esaminò, purch’ei giudicasse quella poterlo condurre al suo intendimento. Sovvienmi d’un’altra cosa che dovea essere accennata di sopra; cioè di que’ due aggiunti inutilissimi posti al «cadaveri» di «freddi» ed «esangui». I quali aggiunti mostra che assai piacciono al P. Bandiera, perocchè egli ne adopera a macca in ogni luogo dove non bisognano punto. Egli è il vero che gli aggiunti, secondo l’insegnamento di Cicerone intorno alle cose significanti il medesimo, acquistan vezzo al parlare; ma anche in ciò egli è d’uopo pôr mente che essi sono come gli abbigliamenti che sopra le vesti adornano la persona, i quali non debbono esser tanti quanti adopererebbe una meretrice, ma parchi e semplici, quali si convengono ad onesta matrona; e per tal guisa gli aggiunti da usar sono con questa matrona gravissima dell’orazione. E siccome gli ornamenti hanno a crescer, non a soffocare la bellezza del corpo, e così gli aggiunti non debbono soprafare e manco poi contrastare alla bellezza del nostro ragionamento. A me medesimo incresce, il dirò pure alla boccaccevole, andarmi tanto tra tante baiucole ravvolgendo: e perchè mi sembra che dalle poche cose insino ad ora accennatevi compreso avrete assai bastevolmente in quanto sconcio modo abbia il P. Bandiera corretto il dettato del P. Segneri, e quanto si sia mostrato però avventato oltremodo ed animoso, togliendosi a rifar ciò ch’egli ha così male eseguito, e ch’altri di più temperata natura non avrebbe sì di leggieri pensato, nonchè intrapreso; vi soggiugnerò brevemente alcune osservazioncelle ch’io ho fatte sopra lo stile del P. Bandiera, argomentando dalla presente opera sua quel che a giudicar s’abbia intorno ad altre delle passate. Se a creder s’avesse all’oppinion che questo autore mostra di aver delle opere sue, principalmente sul fatto della lingua, parrebbe che a chius’occhi, e senza disaminar punto cosa veruna, fossero da accettar per ottimi testi di lingua. Egli, oltre a’ magnifici titoli ch’el pon loro in fronte, ne ragiona spesse volte in maniera che par ch’ei si voglia la burla de’ leggitori; eppure ei ne dovrebbe parlar del miglior senno ch’egli abbia. Il Gerotricamerone, opera sua prediletta, nel bel frontespizio fa una maravigliosissima scena da capitan Trasone con quelle parole : «opera.... presentata a chi vago sia d’apprender prosa toscana», ec.; ed esso ancora vien proposto da studiarsi dopo il Decamerone in più luoghi della presente opera de’ Pregiudizii. Nè avvertì il P. Bandiera, proponendo così fatto libro agli scolari, che nè il Boccaccio nè il Petrarca nè tutti questi altri chiarissimi lumi della toscana lingua ardiron giammai di mostrar per maestre altrui le opere loro: anzi addivenne, che quelle medesime che parvero a que’ maravigliosi giudici esser le migliori, furon poi le meno apprezzate dalla posterità; tanto lo amor delle proprie cose torce le bilance del retto giudicio, e spesso fa veder torto anche ad un occhio che sia ben sano. Che se que’ valorosi spiriti non osarono tanto giammai, manco poi fare il doveva il P. Bandiera; il qual ne’ libri suoi nè la limpidezza agguaglia nè la bellezza dello scriver loro, anzi neppur sembra che a quello s’accosti per conto alcuno. Imperciocchè, se noi vogliamo stare alla presente opera de’ Pregiudizii, la qual sola io ora ho sotto agli occhi e sola mi sono ora tolto per qualche parte ad esaminare, voi vedrete che il P. Bandiera, o sia per la sintassi o sia per la scelta delle parole o sia finalmente per la grammatica medesima, non merita che le opere sue sien da proporsi alla gioventù immediatamente dopo il Decamerone, ovver dopo consimili libri.

La costruzion primieramente n’è in più luoghi oscura e intralciata; di modo che a gran pena alle volte può raccappezzarsene [sic] il sentimento siccome vi si presenterà subito agli occhi nel bel frontispizio di questo libro, ove, secondo la diritta maniera di leggere, intender si dovria che il conte Ercole Dandini traduttor fosse del suo proprio dialogo, non già il Bandiera, che per detto suo nel sappiamo aver volgarizzata cotale operetta; imperocchè egli così scrive: I pregiudizii delle umane lettere per argomenti apertissimi dimostrati, specialmente a buon indirizzo di chi le insegna, dal P. M. Alessandro M. Bandiera, ecc. con un Dialogo sullo stesso argomento del conte Ercole Francesco Dandini, ecc. dal latino in volgar toscano per l’autor recato, ecc. E moltissime altre così fatte maniere di spiegarsi e di costruire, da voi medesimo avrete osservate nel decorso del libro, le quali o abbuiano la sentenza o la rendono di cattivo suono e non proprio della bellissima lingua nostra.

Intorno alla scelta delle parole poi e delle maniere di dire, non brieve discorso da tener sarebbe, se tutti i vizi di cotale spezie s’avessero ad annoverare. Voi v’incontrerete spessissimo in frasi affatto nuove, le quali io non mi soglio pigliar briga di additarci particolarmente, perciocchè io stimerei di far torto a voi, che com’uom di finissimo naso traete tosto all’odor delle toscane cose, ed al contrario sfuggite quelle che non ne olezzano punto. Nel primo passo appena, cioè nella lettera dedicatoria, voi inciamperete in un «correre i volumi», che il P. Bandiera ha detto in quella maniera medesima ch’un viaggiatore direbbe il «correr le poste». Affettatissimo uso egli ha fatto poscia di mille vocaboli, de’ quali, comecchè ci abbia gli equivalenti, nondimeno non gli ha mai variati in conto alcuno, impoverendo in cotal guisa la nostra lingua, per quanto sta a lui, de’ molti e ricchi gioielli ond’ella in sì diverse fogge s’adorna e compone. Non ci sarà, verbigrazia, per lui al mondo niuna cosa che sia «torta» o «storta» ma solamente «distorta»; la qual voce egli ficca pressochè non dissi in ogni pagina. Egli è maestro, per esempio, della lingua nostra nè «dotto» nè «valoroso», nè «saggio», nè «celebre», nè «illustre», nè, «chiaro», ma puramente «solenne»; titolo ch’ei dà unicamente a quelle persone, a cui ciascun altro de’ sopradetti epiteti potrebbe convenire. Credete voi ch’egli scriva giammai «falso» «ingiusto» «non diritto», o tale altro così fatto aggiunto? Egli osa in quella vece «prepostero», voce che fu sovente di così infame valore presso a’ latini, e che da’ nostri buoni toscani fu o del tutto abborrita o da alcuno soltanto, cosa per isvogliataggine, e parcamente, adoperata. Non mai «scorrere» egli scrive, ma «discorrere», non mai «variato», ma «svariato», ecc.; ch’io non voglio ora farvi mia così inetta leggenda. Molte voci eziandio voi rinverrete nel suo libro di poco buon peso nella statera del mugnaio toscano, le quali però doveano essere ad ogni modo sfuggite da uno scrittore che le opere sue offerisce al pubblico per ammaestramento della gioventù: queste son, verbigrazia, «impegno», «incumbenza», « presidio», «massime» e «che però» avverbii, e simili altre, delle quali egli fa in ogni canto del libro suo uno spietato sciupinío.

Assai vocaboli per fine si lascia fuggir dalla penna il P. Bandiera, che in buona lingua non reggono assolutamente, quali sono « giammai» per « nonmai», «mentre» per «imperocchè»; e così fatti.

Che se della grammatica a parlar s’ha, affettato e pedantesco uso noi troverem fatto mai sempre del «cui» invece del «che» relativo paziente, che i buoni scrittori tuttavia amarono; e solo allora intralasciaronlo, che la chiarezza del lor discorso notabilmente a patir ne venisse: così della preposizione «su», posta invariabilmente col genitivo dappoi. Affettato uso fa altresì il Padre Bandiera d’alcuni articoli, che egli scrive senza bisogno, qual sarebbe, per esempio, nella dedicatoria quel «le» posto in fin di queste parole: «l’erudite studiate lingue, cui principalmente professo in questo libro piana maniera ed agevole d’insegnarle»; e così di alcune particelle, come nella dedicatoria medesima: «i favori onde vi siete degnato di colmarne me», e: «l’amorevole protezion vostra procacciato n’ha letterario ozio alle mie applicazioni»; e nel decorso del libro, spezialmente alla pagina trentunesima: «queste le son certissime verità»; la quale accennata particella, o, come questi grammatici la chiaman, ripieno, vien dalle buone scritture sbandita e soltanto lasciata a’ volgari e bassi ragionamenti. Ma dalle semplici affettazioni agli error trapassando, faravvisi innanzi «faccio» per «fo», che nelle purgate prose scriver si dee; e spesse volte anche il torto uso degli articoli, come alla pagina trentanovesima, ov’egli scrive: «alla repubblica ed imperio romano appartengono», che «alla repubblica ed all’imperio romano» dee dirsi, acciocchè l’articolo della femmina non serva al maschio eziandio; e così alla pagina medesima: «intelligenza de’ riti, leggi e fòro romano», ove da dir sarebbe: «intelligenza de’ riti, delle leggi e del fòro romano». Io vi parlerei ancora del mal uso ch’egli ha fatto de’ pronomi, siccome per esempio, alla pagina censessantottesima: «le quali spesso, come accade nel fòro, han le sue repliche»; che «le lor repliche» scriver si dee dirittamente; se a me non paresse di dover qui pôr fine oggimai a questa lunga infilzatura di parole, la quale, siccome ha recato noia a me che l’ho scritta, così stimo che avrà ristucco anche voi che letta l’avete. Voi avrete addunque compreso, dalle cose per me dette finora, siccome i difetti del P. Bandiera principalmente sien nati o dalla troppa estimazion ch’egli ha di se medesimo o, siccome io credo più volentieri, dal troppo zelo ch’egli ha dello avanzamento degli studii altrui; il quale zelo lo ha portato insino a riprendere in sì ardita foggia un così nobile ed accreditato scrittore, quale il Segneri fu, ed a presentare al pubblico gli scritti propri! come esemplari dello scriver bene, quantunque essi o per l’affettazione o per la poca purgatezza della lingua meritino d’esser letti con grandissima circospezione e cautela. Non crediate però che quel ch’io ho detto insino a qui sia quanto dir si possa intorno alla maniera di scriver del P. Bandiera; imperocchè moltissime altre cose dire si potrieno ove l’accortezza vostra non se ne offendesse, e le poche dette non bastassero a chiarire ogni persona di ciò che resterebbe a dire. Esse serviranno bastevolmente, per disingannare i giovani, i quali per avventura lasciandosi condurre alle parole del Bandiera, accetteran come buone certe maniere storte di ragionare o seguiran come limpido e purgato stile ciò che non è altro che pretta affettazione, lontana da ogni naturale e diritta ragion di favella. Ciò accaderà quando voi, servendovi di queste osservazioni mie, e loro accoppiando molt’altre vostre assai migliori, che si potrebbon fare intorno al pensar del Padre Bandiera nell’opera de’ Pregiudizii, vogliate farne parte agli amici nostri, e di mano in mano agli stranieri; i quali tutti, se così saranno, come esser debbon, discreti, giudicheranno che, siccome non è stato mio intento, col difendere il Segneri dalle ingiuste censure altrui, di recare autorità e franchigia a qualche suo vero e reale difetto, così nè manco di scemar punto del verace merito e della diritta estimazione al P. Bandiera col riprenderlo di alcune piccole cose, che da riprendermi parvero nelle opere sue. Intanto voi proseguite i lodevoli studii vostri, che io, aspettando da voi più rilevate cose che queste non sono, mi vi offero cordialmente e raccomando.

 

 

[Sonosi aggiunti i seguenti squarci delle opere del Segneri e del Bandiera,

perocchè d’essi ragionasi spezialmente nella passata lettera.]

 

 

P. SEGNERI.

P. BANDIERA.

Un cavaliere (sentite caso terribile, e inorridite) un cavaliere, chiaro di nascita ma sordido di costumi, invaghitosi di una certa fanciulla benchè moresca [1], se la teneva già da molti anni in casa per suo libidinoso trastullo, poco prezzando le ammonizioni, o severe de’ sacerdoti, o piacevoli degli amici. Perocchè, per trarsi d’attorno chiunque gli ragionava di licenziarla, rispondea con maniere austere e sdegnose, da dispettoso: - Non posso; - quasi che pretendesse di persuadere essere necessità di natura quello ch’era elezione della libidine. Non volendo egli però ritirarsi dalla perfida compagnia, venne, come accade, la morte per distaccarnelo. S’ammala lo sfortunato sul fior degli anni, si abbandona, si colca, ed essendo già dichiarato pericoloso, ne viene ad esso un religioso a me noto, per disporlo a quel passo estremo. Entra in camera, s’avvicina al letto, il saluta, e con prudenti maniere comincia ad insinuargli: Signore, ben m’avvegg’ io esservi maggiore occasione di sperare che di temere. Siete peraltro fresco di età, vigoroso di forze, sincero di complessione. E molti sono campati di male simile al vostro; ma molti anche ne sono morti. E quantunque ci giovi il credere che voi dobbiate esser de’ primi, che vi nuoce l’apparecchiarvi, come se aveste ad esser de’ secondi? - Dite pure - ripigliò l’infermo animosamente, - dite quel che conviene che io faccia, chè lo son per ubbidirvi. Ben conosco per me medesimo la gravezza del mio pericolo, maggiore ancor che non dite e, quantunque io abbia menata cattiva vita, desidero tuttavia, quant’ogni altro, di sortire una buona morte. - Non si può credere quanto cuore pigliasse il buon religioso a queste parole. Avrebbe voluto venir subito al taglio di quella pratica scelerata, che, con suo cordoglio e stomaco eguale, vedea nella camera stessa del moribondo, il quale, sotto pretesto or di un servizio or d’un altro, la volea sempre efficacemente vicina. Nondimeno la prudenza gli persuase di andarlo disponendo prima, con richieste più facili, ad una più faticosa. Gli dice però: - Orsù dunque, giacchè io col favor divino vi scorgo così bene animato, parlerovvi con quella libertà che mi dettano e la santità del mio abito e ’l zelo del vostro bene. I medici unitamente v’han disperato; però, se volete compor le vostre partite, se volete nettar la vostra coscienza, poche ore vi rimarranno. - Tanto più dunque - soggiunge l’altro, - affrettiamoci. C’ho da fare? - Avreste - ripigliò il Padre - per avventura alcun creditore, a cui convenisse di soddisfare? - Gli aveva, ma gli ho soddisfatti. - - Avreste niente d’altrui, che dovreste rendere? L’avea, ma l’ho parimente renduto. - E se per l’addietro aveste portato malevolenza ad alcuno, non la deponete dall’animo? - La depongo. - Perdonate a chi v’ha offeso? - Perdono. - Vi umiliate a chi avete offeso? - Mi umilio. - Non volete per ultimo ricever i sagramenti, come conviensi ad uom cristiano, per armarvi contra le tentazioni dell’inimico e contra i pericoli dell’Inferno? - Volentierissimo gli riceverò, se voi, Padre, vi compiacerete di amministrarmeli. Ma sapete paro che questo non si potrà, se prima non licenziate da voi quella giovine? - Oh, questo non posso, Padre, non posso. - Oimè! che dite? «Non posso?» Perchè non potete? E potete e dovete, signor mio caro, se volete salvarvi. - Io dicovi che non posso. - Ma non vedete che, tanto, vi converrà partir da lei fra brev’ora? Che gran cosa è dunque che vi risolviate a scacciare per elezione quel che dovrete ad ogni modo lasciar per necessità? - Non posso, padre, non posso. Come? ad un Dio per voi crocifisso che ve la chiede, non potrete far questa grazia? Egli è per voi lacero, egli è per voi sanguinoso, egli è per voi morto, miratelo: eccolo qua. Non v’intenerisce il vederlo, non vi compunge? - Non posso, vi torno a dire, non posso. - Ma voi non participerete de’ sagramenti. - Non posso. - Ma voi perderete il Cielo. - Non posso. - Ma voi precipiterete all’Inferno. - Non posso. Ed è possibile ch’io non vi debba trar di bocca altra voce? Meschino, uditemi. Non è pur meglio perder solo la donna, che perdere e la donna, e la riputazione, e ’l corpo, e l’anima, e la vita, e l’eternità, e i santi, e la Vergine, e Cristo, e il Paradiso; e così essere dopo morte sepolto da scomunicato, da bestia, in un letamaio? Allora quello sfortunato, gittando un crudo sospiro: - Non posso, torno a replicare, non posso! - e, raccogliendo quelle deboli forze che gli restavano, afferrò improvvisamente la perfida per un braccio, e con volto acceso e con voce alta proruppe in queste precise parole, alle quali io mi protesto che niuna aggiungo, niuna levo: - Questa è stata la mia gloria in vita; questa è la mia gloria in morte; e questa sarà la mia gloria per tutta l’eternità! - Indi, per forza stringendola ed abbracciandola, tra per la veemenza del male, per la violenza del moto, per l’agitazion dell’affetto, esalò sulle sozze braccia lo spirito disperato.

Un cavaliere (ahi tristo e spaventevole caso!) un cavaliere di nascimento illustre, ma di contaminati costumi, in amore accesosi d’una fanciulla, comecchè moresca fosse, a sua posta in casa teneala per li suoi libidinosi trastulli, poco le ammonizioni apprezzando, o severe de’ sacerdoti, o piacevoli degli amici : conciofossechè, per trarsi d’attorno chi gli entrava in parole sul doverla da sè dipartire, rispondesse, per dispettoso ed aspro modo, non poter lui ciò fare; quasi che a questo riuscir volesse, che tenea quella tresca per necessità di natura, non per elezion di passione. Non volendo egli però dall’amicizia rea ritrarsi, venne appresso la morte, come avvenir suole, a distaccarlo. L’infelice pertanto cade malato sul fior degli anni, e la malattia essendo da’ medici dichiarata grave e di risico, ad esso ne viene un religioso a me noto, per disporlo al passo estremo. In camera n’entra, al letto ai appressa, il saluta, e con accorte parole destramente incomincia ad insinuarsegli all’animo. - Signor mio - prese a dire, - bene io m’avveggio esservi maggior luogo alla speranza che al timore: imperciocchè siete in età fresca, con vigorose forze e di complession ferma e robusta: molti di malor simigliante giunti sono allo scampo; ma molti pur anche del male istesso sono venuti meno e trapassati: e quantunque il creder ci giovi che infra i primi esser dobbiate, che vi nuoce mai il premettere opportuno apparecchio, come se riuscire doveste all’esito de’ secondi? - Dite pure - ripigliò il coraggioso infermo, - deh, dite quello che far si conviene; chè sono tutto disposto ad ubbidire a’ vostri consigli. Per me medesimo assai chiaro conosco grave esser il risico, e maggiore ancora che voi non dite: ma, quantunque io condotto abbia dissoluta vita, desidero non pertanto, quanto altri mai, di finire con buona morte. - Non si può esprimere quanto della risposta lieto fosse il buon religioso. Avrebbe tosto voluto discioglierlo dalla pratica scellerata di colei, cui con suo cordoglio vedea dimorarsi nella camera istessa del moribondo, che, sotto il colorato pretesto or d’un servigio e quando d’un altro, efficacemente voleala sempre a lato. Gli parve nondimeno più prudente consiglio il venirlo disponendo con richieste più agevoli a quello, che di tutto era il più malagevole. Che però così prese a dire: - Or via su dunque, poichè io per favore divino così bene animato vi scorgo, con quella libertà parlorovvi, che richiesta è al carattere della mia sacerdotal dignità, ed allo zelo che debbo avere della vostra spirituale salute. I medici di comun parere disperano della guarigione vostra: che però, se volete le partite vostre acconciare e purgar la coscienza, poche ore vi rimangono di vita. -Tanto più, - colui soggiunse, - dianci fretta: che ho da far io? - Avreste voi alcun creditore per avventura, - ripigliò il padre, - cui di soddisfar bisognasse? - Gli avea, ma ho lor soddisfatto. - Avreste mai altro, che da restituir fosse? - Avealo, ma l’ho pur restituito. - E se per addietro nodrito aveste verso d’alcuno malevolenza, la ponete giù voi dall’animo? - Di cuor la depongo. - Perdonate voi a chi v’offese? - Bon gli perdono. - Chi offeso avete, gli fate umile scusa? - Di buon grado la faccio. - Volete voi dunque finalmente i sacramenti ricevere, come ad uom cristiano si conviene, per armarvi contro le diaboliche tentazioni ed incontro a’ pericoli che vi mette innanzi l’inferno? - Riceverolli ben volentieri se vi compiacerete, o padre, d’amministrarmeli. - Ma sapete pure che questo esser non potrà - il padre soggiunse a tempo, - se questa giovine non vi togliete tosto di casa. - Questo fare nel posso, o padre - il malato risponde, -nel posso già. - Oimè, che dite voi? - esclama il religioso. - «Non posso?» Deh, perchè non potete? E potete, e dovete, signor mio caro, se andar volete a salvamento. - Ma io sì vi dico - ei ripiglia - che far ciò a niun patto non posso. - Ma non vedete - replica, l’altro - che sarete pur nondimeno costretto infra brev’ora a dipartirvi da lei? Ella è dunque gran cosa che per elezion discacciate la mala amata donna, cui pur dovete di necessità lasciare? - Non posso, o padre, non posso. - Come ciò - E non potrete voi di questa ubbidienza compiacere ad un Dio crocifisso, che ve ne richiede? Egli è per voi su di questa croce confitto e lacero; egli vi mostra le sanguinanti sue piaghe; egli è, deh miratelo!, è su questo patibolo in salute di voi spirato. A compassion non vi muove il vederlo? Non vi compunge egli? Non vi tocca vivamente nell’animo? - Non posso, a ripeter vi torno, non posso. - Ma voi non godrete de’ sacramenti. - Non posso. - Ma traboccherete all’inferno. - Non posso. - E sarà egli possibile che altra risposta non vi debba trarre ora di bocca? Deh, sventurato, ascoltate. Non - egli più spediente partito il far discapito della mal conosciuta donna, che della riputazione insiem con essa, e dell’anima, e del paradiso, e della beata eternità, e di Dio? Ed in iscambio di tutto ciò ricever volete per merito che il cadavero di voi defunto sia come di reprobo dichiarato, alla campagna esposto, ovvero in un mondezzaio gittato per pascolo d’ingordi animali? - Allora quell’infelice, dal cuor traendo un infiammato e profondo sospiro- Non posso, non posso - a replicar ritorna, - ahi, non posso! - e, raccogliendo le deboli rimase forze, stringe d’improvviso per l’un de’ bracci l’iniqua: e con acceso volto e chiara voce ruppe in queste precise parole, che di nulla sono da me alterate : - Questa è stata la mia gloria in vita; questa è la mia gloria in morte; e questa sarà la mia gloria per tutta l’eternità. - Quindi, recandosi addosso a lei, e dandole amorosi amplessi, tra per la veemenza del male, per la violenza del moto e per l’agitazion dell’affetto, sulle sozze sue braccia il fiato estremo esalò e lo spirito disperato.

 

***

P. SEGNERI.

P. BANDIERA.

Un funestissimo annunzio son qui a recarvi, o miei riveriti uditori e vi confesso che non senza una estrema difficultà mi ci sono addotto, troppo pesandomi di avervi a contristar sì altamente fin dalla prima mattina ch’io vegga voi o che voi conosciate me. Solo in pensare a quello che dir vi devo, sento agghiacciarmisi per grand’orrore le vene. Ma che gioverebbe il tacere? il dissimular che varrebbe? Ve lo dirò tutti quanti qui siamo, o giovani o vecchi, o padroni o servi, o nobili o popolari, tutti dobbiamo finalmente morire.

Statutum est hominibus semel mori.

Oimè, che veggo? Non è tra voi chi si riscuota ad avviso sì formidabile? nessuno cambiasi di colore? nessuno si muta di volto? Anzi già mi accorgo benissimo che in cuor vostro voi cominciate alquanto a rider di me, come di colui che qui venga a spacciar per nuovo un avviso sì ricantato. - E chi è - mi dite, - il quale oggi mai non sappia che tutti abbiamo a morire?

Quis est homo, qui vivet, et non videbit mortem?

Questo sempre ascoltiamo da tanti pergami, questo sempre leggiamo su tante tombe, questo sempre ci gridano, benchè muti, tanti cadaveri: lo sappiamo. - Voi lo sapete? com’è possibile? Dite. E non siete voi quelli che ieri appunto scorrevate per la città così festeggianti, quale in sembianza di amante, qual di frenetico, qual di parassito? Non siete voi, che ballavate con tanta alacrità ne’ festini? Non siete voi, che v’immergevate con tanta profondità nelle crapule? Non siete voi, che v’abbandonavate con tanta rilassatezza dietro a’ costumi della folle Gentilità? Siete pur voi, che alle commedie sedevate sì lieti? Siete pur voi, che parlavate ne’ palchi sì arditamente? Rispondete. E non siete voi, che tutti allegri, in questa notte medesima precedente alle sacre Ceneri, ve la siete passata in giuochi, in trebbi, in bagordi, in chiacchiere, in canti, in serenate, in amori, e piaccia a Dio che non fors’anche in trastulli più sconvenevoli? E voi mentre operate simili cose, sapete certo di avere ancora a morire? Oh cecità! oh stupidezza! oh delirio! oh perversità! Io mi pensava di aver meco recato un motivo invincibilissimo, da indurvi tutti a penitenza ed a pianto, con annunziarvi la morte; e però mi era qual banditore divino fin qui condotto, per nebbie, per pioggie, per venti, per pantani, per nevi, per torrenti, per ghiacci, alleggerendomi ogni travaglio con dire: - Non può far che qualche anima io non guadagni, con ricordare a’ peccatori la loro mortalità. Ma povero me! Troppo son rimaste deluse lo mie speranze: mentre voi, non ostante sì gran motivo di ravvedervi, avete atteso più tosto a prevaricare; non vergognandovi, quasi dissi, di far come tante pecore ingorde e indisciplinate, le quali allora si aiutano più che possono a darsi bel tempo, crapulando per ogni piaggia, carolando per ogni prato, quando antiveggono che lor sovrasta procella. Che dovrò far io dunque dall’altro lato? dovrò cedere? dovrò ritirarmi? dovrò abbandonarvi in seno al peccato? Anzi così assista Dio favorevole a’ miei pensieri, come io tanto più mi confido di guadagnarvi. Ditemi dunque: mi concedete voi pure d’esser composti di fragilissima polvere? non ò vero? lo conoscete? il capite? lo confessate? senza che altri stanchisi a replicarvi: Memento homo, memento, quia pulvis es. Questo appunto è ciò che io voleva. Toccherà ora a me di provarvi quanto sia grande la presunzione di coloro, che, ciò supposto, vivono un sol momento in colpa mortale, ec.

Un funesto e fiero annunzio sono io questa mane quassù asceso ad arrecarvi, riveriti ascoltatori; ma non senza un’altissima renitenza mi vi sono condotto, conciossiacchè troppo grave all’animo mi riesca il dovervi contristare sulla primiera mia comparsa. Solo in ripensare a quello che annunziare vi debbo, ricercare mi sento da grande orrore le vene. Ma che gioverebbe il tacere? il dissimular che varrebbe? Adunque con tuono libero parlerò. Noi tutti, quanti qui ci troviamo al presente, giovani e vecchi, ricchi e poveri, plebei e nobili, dobbiam senza fallo pur finalmente una volta condurci all’ora estrema e morire.

Statutum est hominibvs semel mori.

Ma, oimè! che vegg’io? Non v’ha tra voi chi a novella sì formidabile si riscuota? non v’ha egli niuno che cambisi di colore? niuno che cangi viso? Che anzi chiaramente m’avveggio che beffe di me vi fate, come di persona che venga a ridirvi per nuovo un sì decantato avviso. - Echi è - mi soggiugnete, - chi è mai che oggi non sappia che tutti abbiamo per inviolabil legge il dovere una volta morire?

Quis est homo, qui vivet, et non videbit mortem?

Questo - voi mi ripetete - ascoltiam sempre da tanti pergami; questo tuttodì leggiamo su di tante lapide sepolcrali, e questo, comecchè mutoli, ci rammentano ad ogn’ora tanti freddi od esangui cadaveri; questa volgar verità ella è a tutti noi ben conta: non v’ha persona che non la sappia. La sapete voi? Deh! come ciò possibil fia? Imperciocchè, ditemi: e non siete voi coloro che ieri appunto in questa città per le vie pubbliche discorrevate in finta sconvenevol sembianza, qual d’amante, qual di frenetico e qual di parassito? Non viete voi quelli, che in liete notturne brigate con tanta alacrità menavate festevoli danze? Non siete voi, che v’immergevate in istrabocchevoli crapule? e che perduti andavate dietro a’ costumi della folle Gentilità? Siete pur voi che vi stavate assisi per godere le piacevoli teatrali comparse; che sì franchi apparivate in iscena. Deh, rispondetemi: questa notte medesima alle Sacre Ceneri precedente non l’avete voi in giuochi passata, in trebbi ed in bagordi? non l’avete voi condotta in canti ed in amori, e in genial conversare, e forse anche in più liberi passatempi? E voi, che procedete con sì fatti andamenti, certi siete di dover morire una volta? Ahi cecità! deh stupidezza! oh delirio! Io credeami d’avervi recato avanti un sì efficace motivo, che bastevole incitamento a voi fosse per condurvi tosto a penitenza, ed a provocarvi a pianto, annunziandovi l’estremo infallibile fine: e però, qual divin banditore, fin qua erami per disagiato cammin condotto; per nebbie e per piogge, per nevi e per pantani; ed i passi solleciti m’infiammava una vigorosa speranza che mi dicea: - E’ non può fare che qualche anima io non guadagni, a’ peccatori la loro mortalità ricordando. Ma povero me! ahi deluse mie speranze! chè, non ostante motivo sì grave, atteso avete a prevaricare piuttosto; ed a guisa d’ingorde pecore, che allora indisciplinate crapulando vanno per ogni piaggia, carolando per ogni prato, quando antiveggiono che sovrasta già la tempesta, dal riflesso della vicina morte prendeste a darvi buon tempo maggiore incitamento. Che dovrò far io dunque? qual partito prendere? Dovrò io ceder forse, e ritrarmi dall’apostolica impresa? lasciar vi dovrò in seno al peccato? No certamente. Ed anzi così Iddio favorevol sostegno porga a’ miei pensieri ed assistenza efficace a pii disegni, come io vie maggiormente mi confido a penitenza piegarvi. Ditemi adunque: mi concedete voi che siete di fragil creta composti? non è egli vero? il conoscete? il capite? il comprendete voi? chiaramente il confessate? senza che altri si affatichi a ripetervi: Memento, homo, memento, homo, quia pulvis es. Questo a me basta; non desidero più avanti: a mio carco starà ora il provarvi quanto sia grande la presunzion di coloro che, ciò supposto, un sol momento in istato di mortal colpa dimorano, ec.

 

© 2002 Biblioteca dei Classici Italiani

by Giuseppe Bonghi


 

[1] L’edizione seguita ha per manifesto errore di stampa, modesta.

 

 

 

 

 

Indice Biblioteca Progetto Parini 

© 1996 - Tutti i diritti sono riservati

Biblioteca dei Classici italiani di Giuseppe Bonghi

Ultimo aggiornamento: 14 aprile 2006

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