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Privacy Policy Cookie Policy Terms and Conditions Giuseppe Parini - Il Mattino - edizione Francesco Reina 1801

Giuseppe Parini

Il Giorno

Il Mattino, edizione Francesco Reina 1801

 

 

 

Edizione di riferimento

Opere di Giuseppe Parini, pubblicate ed illustrate da Francesco Reina. Vol. primo. Milano, presso la Stamperia e Fonderia del Genio tipografico, I. - Vendemmiatore anno x - 1801.

Intervento grafico:

Abbiamo sostituito la / í / con la / ï / in corsivo per facilitare in modo inequivoco il lettore moderno

Il Mattino

Alla Moda

Lungi da queste carte i cisposi occhj già da un secolo rintuzzati, lungi i fluidi nasi de’ malinconici vegliardi. Qui non si tratta di gravi ministerj nella patria esercitati, non di severe leggi, non di annoiante domestica economia, misero appannaggio della canuta età. A te, vezzosissima Dea, che non sí dolci redine oggi temperi e governi la nostra brillante gioventù, a te sola questo piccolo Libretto si dedica e si consagra. Chi è che te, qual sommo Nume, oggimai non riverisca ed onori, poiché in sí breve tempo se’ giunta a debellar la ghiacciata Ragione, il pedante Buon Senso e l’Ordine seccagginoso, tuoi capitali nemici, ed hai sciolto dagli antichissimi lacci questo secolo avventurato? Piacciati adunque di accogliere sotto alla tua protezione (ché forse non n’è indegno) questo piccolo Poemetto. Tu il reca su i pacifici altari, ove le gentili dame e gli amabili garzoni sagrificano a se medesimi le mattutine ore. Di questo solo egli è vago, e di questo solo andrà superbo e contento. Per esserti più caro egli ha scosso il giogo della servile rima, e se ne va libero in versi sciolti, sapendo che tu di questi specialmente ora godi e ti compiaci. Esso non aspira all’immortalità, come altri libri, troppo lusingati da’ loro autori, che tu, repentinamente sopravvenendo, hai seppelliti nell’oblio. Siccome egli è per te nato, e consagrato a te sola, così fie pago di vivere quel solo momento, che tu ti mostri sotto un medesimo aspetto, e pensi a cangiarti, e risorgere in più graziose forme. Se a te piacerà di riguardare con placid’occhio questo Mattino, forse gli succederanno il Mezzogiorno e la Sera; e il loro autore si studierà di comporli ed ornarli in modo, che non men di questo abbiano ad esserti cari.

Giovin Signore, o a te scenda per lungo

Di magnanimi lombi ordine il sangue

Purissimo celeste, o in te del sangue

Emendino il difetto i compri onori

E le adunate in terra o in mar ricchezze

Dal genitor frugale in pochi lustri,

Me precettor d’amabil rito ascolta.

Come ingannar questi nojosi e lenti

Giorni di vita, cui sì lungo tedio

E fastidio insoffribile accompagna

Or io t’insegnerò. Quali al mattino,

Quai dopo il mezzodí, quali la sera

Esser debban tue cure apprenderai,

Se in mezzo agli ozj tuoi ozio ti resta

Pur di tender gli orecchi a’ versi miei.

Già l’are a Vener sacre e al giocatore

Mercurio ne le Gallie e in Albione

Devotamente hai visitate, e porti

Pur anco i segni del tuo zelo impressi:

Ora è tempo di posa. In vano Marte

A sè t’invita; che ben folle è quegli

Che a rischio de la vita onor si merca,

E tu naturalmente il sangue abborri

Nè i mesti de la Dea Pallade studj

Ti son meno odiosi: avverso ad essi

Ti feron troppo i queruli ricinti

Ove l’arti migliori, e le scienze

Cangiate in mostri, e in vane orride larve,

Fan le capaci volte echeggiar sempre

Di giovanili strida. Or primamente

Odi quali il Mattino a te soavi

Cure debba guidar con facil mano.

Sorge il mattino in compagnía dell’Alba

Innanzi al sol che di poi grande appare

Su l’estremo orizzonte a render lieti

Gli animali e le piante e i campi e l’onde.

Allora il buon villan sorge dal caro

Letto cui la fedel sposa, e i minori

Suoi figlioletti intepidír la notte;

Poi sul collo recando i sacri arnesi

Che prima ritrovár Cerere, e Pale,

Va col bue lento innanzi al campo, e scuote

Lungo il picciol sentier da’ curvi rami

Il rugiadoso umor che, quasi gemma,

I nascenti del Sol raggi rifrange.

Allora sorge il fabbro, e la sonante

Officina riapre, e all’opre torna

L’altro dí non perfette, o se di chiave

Ardua e ferrati ingegni all’inquieto

Ricco l’arche assecura, o se d’argento

E d’oro incider vuol giojelli e vasi

Per ornamento a nuove spose o a mense.

Ma che? tu inorridisci, e mostri in capo,

Qual istrice pungente, irti i capegli

Al suon di mie parole? Ah non è questo,

Signore, il tuo mattin. Tu col cadente

Sol non sedesti a parca mensa, e al lume

Dell’incerto crepuscolo non gisti

Jeri a corcarti in male agiate piume,

Come dannato è a far l’umile vulgo.

A voi celeste prole, a voi concilio

Di Semidei terreni altro concesse

Giove benigno: e con altr’arti e leggi

Per novo calle a me convien guidarvi.

Tu tra le veglie, e le canore scene,

E il patetico gioco oltre più assai

Producesti la notte; e stanco alfine

In aureo cocchio, col fragor di calde

Precipitose rote, e il calpestío

Di volanti corsier, lunge agitasti

Il queto aere notturno, e le tenèbre

Con fiaccole superbe intorno apristi,

Siccome allor che il siculo terreno

Dall’uno all’altro mar rimbombar feo

Pluto col carro a cui splendeano innanzi

Le tede de le Furie anguicrinite.

Così tornasti a la magion; ma quivi

A novi studj ti attendea la mensa

Cui ricopríen pruriginosi cibi

E licor lieti di Francesi colli,

O d’Ispani, o di Toschi, o l’Ongarese

Bottiglia a cui di verde edera Bacco

Concedette corona; e disse: siedi

De le mense reína. Alfine il Sonno

Ti sprimacciò le morbide coltríci

Di propria mano, ove, te accolto, il fido

Servo calò le seriche cortine:

E a te soavemente i lumi chiuse

Il gallo che li suole aprire altrui.

Dritto è perciò, che a te gli stanchi sensi

Non sciolga da’ papaveri tenaci

Morfeo prima, che già grande il giorno

Tenti di penetrar fra gli spiragli

De le dorate imposte, e la parete

Pingano a stento in alcun lato i raggi

Del sol ch’eccelso a te pende sul capo.

Or qui principio le leggiadre cure

Denno aver del tuo giorno; e quinci io debbo

Sciorre il mio legno, e co’ precetti miei

Te ad alte imprese ammaestrar cantando.

Già i valetti gentili udír lo squillo

Del vicino metal cui da lontano

Scosse tua man col propagato moto;

E accorser pronti a spalancar gli opposti

Schermi a la luce, e rigidi osserváro,

Che con tua pena non osasse Febo

Entrar diretto a saettarti i lumi.

Ergiti or tu alcun poco, e sì ti appoggia

Alli origlieri i quai lenti gradando

All’omero ti fan molle sostegno.

Poi coll’indice destro, lieve lieve

Sopra gli occhi scorrendo, indi dilegua

Quel che riman de la Cimmeria nebbia;

E de’ labbri formando un picciol arco,

Dolce a vedersi, tacito sbadiglia.

Oh! se te in sì gentile atto mirasse

Il duro capitan qualor tra l’armi,

Sgangherando le labbra, innalza un grido

Lacerator di ben costrutti orecchi,

Onde a le squadre varj moti impone;

Se te mirasse allor, certo vergogna

Avría di sé più che Minerva il giorno

Che, di flauto sonando, al fonte scorse

Il turpe aspetto de le guance enfiate.

Ma già il ben pettinato entrar di nuovo

Tuo damigello i’ veggo; egli a te chiede

Quale oggi più de le bevande usate

Sorbir ti piaccia in preziosa tazza:

Indiche merci son tazze e bevande;

Scegli qual più desii. S’oggi ti giova

Porger dolci allo stomaco fomenti,

Sì che con legge il natural calore

V’arda temprato, e al digerir ti vaglia,

Scegli il brun cioccolatte, onde tributo

Ti dà il Guatimalese e il Caribèo

C’ha di barbare penne avvolto il crine:

Ma se nojosa ipocondría t’opprime,

O troppo intorno a le vezzose membra

Adipe cresce, de’ tuoi labbri onora

La nettarea bevanda ove abbronzato

Fuma, ed arde il legume a te d’Aleppo

Giunto, e da Moca [1] che di mille navi

Popolata mai sempre insuperbisce.

Certo fu d’uopo, che dal prisco seggio

Uscisse un regno, e con ardite vele

Fra straniere procelle e novi mostri

E teme e rischi ed inumane fami

Superasse i confin, per lunga etade

Inviolati ancora: e ben fu dritto

Se Cortes, e Pizzarro umano sangue

Non istimár quel ch’oltre l’Oceáno

Scorrea le umane membra, onde tonando

E fulminando, alfin spietatamente

Balzaron giù da’ loro aviti troni

Re Messicani e generosi Incassi,

Poiché nuove così venner delizie,

O gemma degli eroi, al tuo palato.

Cessi ‘l cielo però, che in quel momento

Che la scelta bevanda a sorbir prendi,

Servo indiscreto a te improvviso annunzj

Il villano sartor che, non ben pago

D’aver teco diviso i ricchi drappi,

Oso sia ancor con pólizza infinita

A te chieder mercede: ahimè, che fatto

Quel salutar licore agro e indigesto

Tra le viscere tue, te allor farebbe

E in casa e fuori e nel teatro e al corso

Ruttar plebejamente il giorno intero!

Ma non attenda già ch’altri lo annunzj

Gradito ognor, benché improvviso, il dolce

Mastro che i piedi tuoi come a lui pare

Guida, e corregge. Egli all’entrar si fermi

Ritto sul limitare, indi elevando

Ambe le spalle, qual testudo il collo

Contragga alquanto; e ad un medesmo tempo

Inchini ‘l mento, e con l’estrema falda

Del piumato cappello il labbro tocchi.

Non meno di costui facile al letto

Del mio Signor t’accosta, o tu che addestri

A modular con la flessibil voce

Teneri canti, e tu che mostri altrui

Come vibrar con maestrevol arco

Sul cavo legno armoniose fila.

Né la squisita a terminar corona

D’intorno al letto tuo manchi, o signore,

Il precettor del tenero idioma

Che da la Senna de le Grazie madre

Or ora a sparger di celeste ambrosia

Venne all’Italia nauseata i labbri.

All’apparir di lui l’itale voci

Tronche cedano il campo al lor tiranno;

E a la nova ineffabile armonía

De’ soprumani accenti, odio ti nasca

Più grande in sen contro alle impure labbra

Ch’osan macchiarsi ancor di quel sermone

Onde in Valchiusa fu lodata e pianta [2]

Già la bella francese, et onde i campi

All’orecchio dei re cantati furo

Lungo il fonte gentil de le bell’acque [3].

Misere labbra che temprar non sanno

Con le galliche Grazie il sermon nostro,

Sì che men aspro a’ dilicati spirti,

E men barbaro suon fieda gli orecchi!

Or te questa, o Signor, leggiadra schiera

Trattenga al novo giorno; e di tue voglie

Irresolute ancora or l’uno, or l’altro

Con piacevoli detti il vano occúpi,

Mentre tu chiedi lor tra i lenti sorsi

Dell’ardente bevanda a qual cantore

Nel vicin verno si darà la palma

Sopra le scene; e s’egli è il ver, che rieda

L’astuta Frine che ben cento folli

Milordi rimandò nudi al Tamigi;

O se il brillante danzator Narcisso

Tornerà pure ad agghiacciare i petti

De’ palpitanti Italici mariti.

Poiché così gran pezzo a’ primi albori

Del tuo mattin teco scherzato fia

Non senz’aver licenziato prima

L’ipocrita pudore, e quella schifa,

Cui le accigliate gelide matrone

Chiaman modestia, alfine o a lor talento,

O da te congedati escan costoro.

Doman si potrà poscia, o forse l’altro

Giorno a’ precetti lor porgere orecchio,

Se meno ch’oggi a te cure dintorno

Porranno assedio. A voi divina schiatta,

Vie più che a noi mortali il ciel concesse

Domabile midollo entro al cerébro,

Sì che breve lavor basta a stamparvi

Novelle idee. In oltre a voi fu dato

Tal de’ sensi e de’ nervi e degli spirti

Moto e struttura, che ad un tempo mille

Penetrar puote, e concepir vostr’alma

Cose diverse, e non però turbarle

O confonder giammai, ma scevre e chiare

Ne’ loro alberghi ricovrarle in mente.

Il vulgo intanto a cui non dessi il velo

Aprir de’ venerabili misterj,

Fie pago assai, poi che vedrà sovente

Ire e tornar dal tuo palagio i primi

D’arte maestri, e con aperte fauci

Stupefatto berà le tue sentenze.

Ma già vegg’io, che le oziose lane

Soffrir non puoi più lungamente, e in vano

Te l’ignavo tepor lusinga e molce,

Però che or te più gloriosi affanni

Aspettan l’ore a trapassar del giorno.

Su dunque o voi del primo ordine servi

Che degli alti signor ministri al fianco

Siete incontaminati, or dunque voi

Al mio divino Achille, al mio Rinaldo

L’armi apprestate. Ed ecco in un baleno

I tuoi valetti a’ cenni tuoi star pronti.

Già ferve il gran lavoro. Altri ti veste

La serica zimarra ove disegno

Diramasi Chinese; altri, se il chiede

Più la stagione, a te le membra copre

Di stese infino al piè tiepide pelli.

Questi al fianco ti adatta il bianco lino

Che sciorinato poi cada, e difenda

I calzonetti; e quei, d’alto curvando

Il cristallino rostro, in su le mani

Ti versa acque odorate, e da le mani

In limpido bacin sotto le accoglie.

Quale il sapon del redivivo muschio

Olezzante all’intorno; e qual ti porge

Il macinato di quell’arbor frutto,

Che a Ròdope fu già vaga donzella,

E chiama in van sotto mutate spoglie

Demofoonte ancor Demofoonte [4].

L’un di soavi essenze intrisa spugna

Onde tergere i denti, e l’altro appresta

Ad imbianchir le guance util licore.

Assai pensasti a te medesmo; or volgi

Le tue cure per poco ad altro obbietto

Non indegno di te. Sai che compagna

Con cui divider possa il lungo peso

Di quest’inerte vita il ciel destina

Al giovane Signore. Impallidisci?

No non parlo di nozze: antiquo e vieto

Dottor sarei se così folle io dessi

A te consiglio. Di tant’alte doti

Tu non orni così lo spirto, e i membri,

Perché in mezzo a la tua nobil carriera

Sospender debbi ‘l corso, e fuora uscendo

Di cotesto a ragion detto Bel Mondo,

In tra i severi di famiglia padri

Relegato ti giacci, a un nodo avvinto

Di giorno in giorno più penoso, e fatto

Stallone ignobil de la razza umana.

D’altra parte, il marito ahi quanto spiace,

E lo stomaco move ai dilicati

Del vostr’Orbe leggiadro abitatori

Qualor de’ semplicetti avoli nostri

Portar osa in ridicolo trionfo

La rimbambita Fé, la Pudicizia

Severi nomi! E qual non suole a forza

In que’ melati seni eccitar bile

Quando i calcoli vili del castaldo

Le vendemmie, i ricolti, i pedagoghi

Di que’ sì dolci suoi bambini altrui,

Gongolando, ricorda; e non vergogna

Di mischiar cotai fole a peregrini

Subbietti, a nuove del dir forme, a sciolti

Da volgar fren concetti onde s’avviva

Da’ begli spirti il vostro amabil Globo.

Pera dunque chi a te nozze consiglia.

Ma non però senza compagna andrai

Che sia giovane dama, e d’altrui sposa;

Poiché sì vuole inviolabil rito

Del bel mondo onde tu se’ cittadino.

Tempo già fu, che il pargoletto Amore

Dato era in guardia al suo fratello Imene;

Poiché la madre lor temea, che il cieco

Incauto nume perigliando gisse

Misero e solo per oblique vie,

E che bersaglio agl’indiscreti colpi

Di senza guida, e senza freno arciero,

Troppo immaturo al fin corresse il seme

Uman ch’è nato a dominar la terra.

Perciò la prole mal secura all’altra

In cura dato avea, sì lor dicendo:

» Ite o figli del par; tu più possente

» Il dardo scocca, e tu più cauto il guida

» A certa meta ». Così ognor compagna

Iva la dolce coppia, e in un sol regno,

E d’un nodo comun l’alme stringea.

Allora fu che il Sol mai sempre uniti

Vedea un pastore, ed una pastorella

Starsi al prato, a la selva, al colle, al fonte;

E la suora di lui vedeali poi

Uniti ancor nel talamo beato

Ch’ambo gli amici Numi a piene mani

Gareggiando spargean di gigli e rose.

Ma che non puote anco in divino petto,

Se mai s’accende ambizion di regno?

Crebber l’ali ad Amore a poco a poco,

E la forza con esse; ed è la forza

Unica e sola del regnar maestra.

Perciò a poc’aere prima, indi più ardito

A vie maggior fidossi, e fiero alfine

Entrò nell’alto, e il grande arco crollando,

E il capo, risonar fece a quel moto

Il duro acciar che la faretra a tergo

Gli empie, e gridò: solo regnar vogl’io.

Disse, e volto a la madre » Amore adunque

» Il più possente in fra gli Dei, il primo

» Di Citeréa figliuol ricever leggi,

» E dal minor german ricever leggi

» Vile alunno, anzi servo? Or dunque Amore

» Non oserà fuor ch’una unica volta

» Ferire un’alma come questo schifo

» Da me vorrebbe? E non potrò giammai

» Dappoi ch’io strinsi un laccio, anco slegarlo

» A mio talento, e qualor parmi un altro

» Stringerne ancora? E lascerò pur ch’egli

» Di suoi unguenti impeci a me i miei dardi

» Perché men velenosi e men crudeli

» Scendano ai petti? Or via perché non togli

» A me da le mie man quest’arco e queste

» Armi da le mie spalle, e ignudo lasci

» Quasi rifiuto de gli Dèi, Cupido?

» O il bel viver che fia qualor tu solo

» Regni in mio loco! O il bel vederti, lasso!

» Studiarti a torre da le languid’alme

» La stanchezza e ‘l fastidio, e spander gelo

» Di foco in vece! Or genitrice intendi,

» Vaglio, e vo’ regnar solo. A tuo piacere

» Tra noi parti l’impero, ond’io con teco

» Abbia omai pace, e in compagnía d’Imene

» Me non trovin mai più le umane genti ».

Qui tacque Amore, e minaccioso in atto,

Parve all’Idalia Dea chieder risposta.

Ella tenta placarlo, e pianti e preghi

Sparge ma in vano; onde a’ due figli volta

Con questo dir pose al contender fine.

» Poiché nulla tra voi pace esser puote,

» Si dividano i regni. E perché l’uno

» Sia dall’altro germano ognor disgiunto,

» Sieno tra voi diversi, e ‘l tempo, e l’opra.

» Tu che di strali altero a fren non cedi

» L’alme ferisci, e tutto il giorno impera:

» E tu che di fior placidi hai corona

» Le salme accoppia, e coll’ardente face

» Regna la notte.» Ora di qui, signore,

Venne il rito gentil che a’ freddi sposi

Le tenebre concede, e de le spose

Le caste membra: e a voi beata gente

Di più nobile mondo il cor di queste,

E il dominio del dì, largo destina.

Fors’anco un dì più liberal confine

Vostri diritti avran, se Amor più forte

Qualche provincia al suo germano usurpa:

Così giova sperar. Tu volgi intanto

A’ miei versi l’orecchio, et odi or quale

Cura al mattin tu debbi aver di lei

Che spontanea o pregata, a te donossi

Per tua dama quel dì lieto che a fida

Carta, non senza testimonj furo

A vicenda commessi i patti santi,

E le condizion del caro nodo.

Già la dama gentil de’ cui bei lacci

Godi avvinto sembrar le chiare luci

Col novo giorno aperse; e suo primiero

Pensier fu dove teco abbia piuttosto

A vegliar questa sera, e consultonne

Contegnosa lo sposo il qual pur dianzi

Fu la mano a baciarle in stanza ammesso.

Or dunque è tempo che il più fido servo

E il più accorto tra i tuoi mandi al palagio

Di lei chiedendo se tranquilli sonni

Dormío la notte, e se d’imagin liete

Le fu Mórfeo cortese. È ver che ieri

Sera tu l’ammirasti in viso tinta

Di freschissime rose; e più che mai

Vivace e lieta uscío teco del cocchio,

E la vigile tua mano per vezzo

Ricusò sorridendo allor che l’ampie

Scale salí del maritale albergo:

Ma ciò non basti ad acquetarti, e mai

Non obliar sì giusti ufici. Ahi quanti

Genj malvagi tra ‘l notturno orrore

Godono uscire ed empier di perigli

La placida quiete de’ mortali!

Potría, tolgalo il cielo, il picciol cane

Con latrati improvvisi i cari sogni

Troncare a la tua dama, ond’ella, scossa

Da subito capriccio, a rannicchiarsi

Astretta fosse, di sudor gelato

E la fronte bagnando, e il guancial molle.

Anco potría colui che, sì de’ tristi

Come de’ lieti sogni è genitore,

Crearle in mente di diverse idee

In un congiunte orribile chimera,

Onde agitata in ansioso affanno

Gridar tentasse, e non però potesse

Aprire ai gridi tra le fauci il varco.

Sovente ancor ne la trascorsa sera

La perduta tra ‘l gioco aurea moneta

Non men che al cavalier, suole a la Dama

Lunga vigilia cagionar: talora

Nobile invidia de la bella amica

Vagheggiata da molti, e talor breve

Gelosía n’è cagione. A questo aggiugni

Gl’importuni mariti i quali in mente

Ravvolgendosi ancor le viete usanze,

Poi che cessero ad altri il giorno, quasi

Abbian fatto gran cosa, aman d’Imene

Con superstizion serbare i dritti,

E dell’ombre notturne esser tiranni,

Non senz’affanno de le caste spose

Ch’indi preveggon tra poc’anni il fiore

De la fresca beltade a sè rapirsi.

Or dunque ammaestrato a quali e quanti

Miseri casi espor soglia il notturno

Orror le Dame, tu non esser lento,

Signore, a chieder de la tua novelle.

Mentre che il fido messaggier si attende,

Magnanimo signor, tu non starai

Ozio-so però. Nel dolce campo

Pur in questo momento il buon Cultore

Suda, e incallisce al vomere la mano,

Lieto, che i suoi sudor ti fruttin poi

Dorati cocchi, e peregrine mense.

Ora per te l’industre Artier sta fiso

Allo scarpello, all’asce, al subbio, all’ago;

Ed ora a tuo favor contende, o veglia

Il Ministro di Temi. Ecco te pure

Te la toilette attende: ivi i bei pregi

De la natura accrescerai con l’arte,

Ond’oggi uscendo, del beante aspetto

Beneficar potrai le genti, e grato

Ricompensar di sue fatiche il mondo.

Ma già tre volte e quattro il mio signore

Velocemente il gabinetto scorse

Col crin disciolto e su gli omeri sparso,

Quale a Cuma solea l’orribil maga

Quando agitata dal possente nume

Vaticinar s’udía. Così dal capo

Evaporar lasciò de gli olj sparsi

Il nocivo fermento, e de le polvi

Che roder gli potrien la molle cute,

O d’atroce emicrania a lui le tempia

Trafigger anco. Or egli avvolto in lino

Candido siede. Avanti a lui lo specchio

Altero sembra di raccor nel seno

L’imagin diva: e stassi agli occhi suoi

Severo esplorator de la tua mano

O di bel crin volubile architetto.

Mille d’intorno a lui volano odori

Che a le varie manteche ama rapire

L’auretta dolce, intorno ai vasi ugnendo

Le leggerissim’ale di farfalla.

Tu chiedi in prima a lui qual più gli aggrada

Sparger sul crin, se il gelsomino, o il biondo

Fior d’arancio piuttosto, o la giunchiglia,

O l’ambra preziosa agli avi nostri.

Ma se la Sposa altrui, cara al Signore,

Del talamo nuzial si duole, e scosse

Pur or da lungo peso il molle lombo,

Ah fuggi allor tutti gli odori, ah fuggi;

Che micidial potresti a un sol momento

Tre vite insidiar: semplici sieno

I tuoi balsami allor, né oprarli ardisci

Pria che su lor deciso abbian le nari

Del mio Signore, e tuo. Pon mano poscia

Al pettin liscio, e coll’ottuso dente

Lieve solca i capegli; indi li turba

Col pettine e scompiglia: ordin leggiadro

Abbiano alfin da la tua mente industre.

Io breve a te parlai; ma non pertanto

Lunga fia l’opra tua; nè al termin giunta

Prima sarà, che da più strani eventi

Turbisi e tronchi a la tua impresa il filo.

Fisa i lumi allo speglio, e vedrai quivi

Non di rado il signor morder le labbra

Impaziente, ed arrossir nel viso.

Sovente ancor se artificiosa meno

Fia la tua destra, del convulso piede

Udrai lo scalpitar breve e frequente,

Non senza un tronco articolar di voce

Che condanni, e minacci. Anco t’aspetta

Veder talvolta il mio Signor gentile

Furiando agitarsi, e destra e manca

Porsi nel crine; e scompigliar con l’ugna

Lo studio di molt’ore in un momento.

Che più? Se per tuo male un dí vaghezza

D’accordar ti prendesse al suo sembiante

L’edificio del capo, ed obliassi

Di prender legge da colui che giunse

Pur jer di Francia, ahi quale atroce folgore,

Meschino! allor ti pendería sul capo?

Che il tuo signor vedresti ergers’in piedi;

E versando per gli occhi ira e dispetto,

Mille strazj imprecarti; e scender fino

Ad usurpar le infami voci al vulgo

Per farti onta maggiore; e di bastone

Il tergo minacciarti; e violento

Rovesciare ogni cosa, al suol spargendo

Rotti cristalli e calamistri e vasi

E pettini ad un tempo. In cotal guisa,

Se del Tonante all’ara o de la Dea,

Che ricovrò dal Nilo il turpe Phallo [5],

Tauro spezzava i raddoppiati nodi

E libero fuggía, vedeansi al suolo

Vibrar tripodi, tazze, bende, scuri,

Litui, coltelli, e d’orridi muggiti

Commosse rimbombar le arcate volte,

E d’ogni lato astanti e sacerdoti

Pallidi all’urto e all’impeto involarsi

Del feroce animal che pria sì queto

Gía di fior cinto, e sotto la man sacra

Umiliava le dorate corna.

Tu non pertanto coraggioso e forte

Soffri, e ti serba a la miglior fortuna.

Quasi foco di paglia è il foco d’ira

In nobil cor. Tosto il Signor vedrai

Mansuefatto a te chieder perdono,

E sollevarti oltr’ogni altro mortale

Con preghi e scuse a niun altro concesse;

Onde securo sacerdote allora

L’immolerai qual vittima a Filauzio

Sommo Nume de’ Grandi, e pria d’ognaltro

Larga otterrai del tuo lavor mercede.

Or, Signore, a te riedo. Ah non sia colpa

Dinanzi a te s’io travviai col verso

Breve parlando ad un mortal cui degni

Tu degli arcani tuoi. Sai, che a sua voglia

Questi ogni dí volge, e governa i capi

De’ più felici spirti; e le matrone,

Che da’ sublimi cocchi alto disdegnano

Volgere il guardo a la pedestre turba,

Non disdegnan sovente entrar con lui

In festevoli motti allor ch’esposti

A la sua man sono i ridenti avorj

Del bel collo e del crin l’aureo volume.

Perciò accogli ti prego i versi miei

Tuttor benigno: et odi or come possi

L’ore a te render graziose mentre

Dal pettin creator tua chioma acquista

Leggiadra o almen non più veduta forma.

Picciol libro elegante a te dinanzi

Tra gli arnesi vedrai che l’arte aduna

Per disputare a la natura il vanto

Del renderti sì caro agli occhi altrui.

Ei ti lusingherà forse con liscia

Purpurea pelle onde fornito avrallo

O Mauritano conciatore, o Siro;

E d’oro fregi dilicati, e vago

Mutabile color che il collo imiti

De la colomba v’avrà posto intorno

Squisito legator Batavo, o Franco.

Ora il libro gentil con lenta mano

Togli; e non senza sbadigliare un poco

Aprilo a caso, o pur là dove il parta

Tra una pagina e l’altra indice nastro.

O de la Francia Proteo multiforme

Voltaire troppo biasmato e troppo a torto

Lodato ancor che sai con novi modi

Imbandir ne’ tuoi scritti eterno cibo

Ai semplici palati; e se’ maestro

Di coloro che mostran di sapere,

Tu appresta al mio signor leggiadri studj

Con quella tua fanciulla agli angli infesta [6]

Che il grande Enrico tuo vince d’assai,

L’Enrico tuo che non peranco abbatte

L’Italian Goffredo ardito scoglio

Contro a la Senna d’ogni vanto altera.

Tu de la Francia onor, tu in mille scritti

Celebrata Ninon [7] novella Aspasia,

Taide novella ai facili sapienti

De la gallica Atene i tuoi precetti

Pur dona al mio signore: e a lui non meno

Pasci la nobil mente o tu [8] ch’a Italia,

Poi che rapirle i tuoi l’oro e le gemme,

Invidiasti il fedo loto ancora

Onde macchiato è il Certaldese [9], e l’altro

Per cui va sì famoso il pazzo conte [10].

Questi, o Signore, i tuoi studiati autori

Fieno e mill’altri che guidáro in Francia

A novellar con le vezzose schiave

I bendati Sultani i regi Persi,

E le peregrinanti Arabe dame;

O che con penna liberale ai cani

Ragion donáro e ai barbari sedili,

E dier feste e conviti e liete scene

Ai polli ed a le gru [11] d’amor maestre.

O pascol degno d’anima sublime!

O chiara o nobil mente! A te ben dritto

è che si curvi riverente il vulgo,

E gli oracoli attenda. Or chi fia dunque

Sì temerario che in suo cor ti beffi

Qualor partendo da sì begli studj

Del tuo paese l’ignoranza accusi,

E tenti aprir col tuo felice raggio

La Gotica caligine che annosa

Siede su gli occhi a le misere genti?

Così non mai ti venga estranea cura

Questi a troncar sì preziosi istanti

In cui non meno de la docil chioma

Coltivi ed orni il penetrante ingegno.

Non pertanto avverrà, che tu sospenda

Quindi a pochi momenti i cari studj,

E che ad altro ti volga. A te quest’ora

Condurrà il merciajuol che in patria or torna

Pronto inventor di lusinghiere fole,

E liberal di forestieri nomi

A merci che non mai varcáro i monti.

Tu a lui credi ogni detto: e chi vuoi, ch’osi

Unqua mentire ad un tuo pari in faccia?

Ei fia che venda, se a te piace, o cambj

Mille fregi e giojelli a cui la moda

Di viver concedette un giorno intero

Tra le folte d’inezie illustri tasche:

Poi lieto sen andrà con l’una mano

Pesante di molt’oro; e in cor giojendo,

Spregerà le bestemmie imprecatrici,

E il gittato lavoro, e i vani passi

Del calzolar diserto, e del drappiere;

E dirà lor: ben degna pena avete

O troppo ancor religiosi servi

De la necessitade, antiqua è vero

Madre e donna dell’arti, or nondimeno

Fatta cenciosa e vile. Al suo possente

Amabil vincitor v’era assai meglio,

O miseri, ubbidire. Il Lusso il Lusso

Oggi sol puote dal ferace corno

Versar sull’arti a lui vassalle applausi

E non contesi mai premj e dovizie.

L’ora fia questa ancor che a te conduca

Il dilicato miniator di belle,

Ch’è de la corte d’Amatunta e Pafo

Stipendiato ministro atto a gli affari

Sollecitar dell’amorosa dea.

Impaziente or tu l’affretta e sprona

Perché a te porga il desiato avorio

Che de le amate forme impresso ride,

O che il pennel cortese ivi dispieghi

L’alme sembianze del tuo viso ond’abbia

Tacito pasco allor che te non vede

La pudica d’altrui sposa a te cara;

O che di lei medesma al vivo esprima

L’imagin vaga; o se ti piace, ancora

D’altra fiamma furtiva a te presenti

Con più largo confin le amiche membra.

Ma poi che al fine a le tue luci esposto

Fia il ritratto gentil, tu cauto osserva

Se bene il simulato al ver risponda,

Vie più rigido assai se il tuo sembiante

Esprimer denno i colorati punti

Che l’arte ivi dispose. O quante mende

Scorger tu vi saprai! Or brune troppo

A te parran le guance; or fia ch’ecceda

Mal frenata la bocca; or qual conviensi

Al camuso Etiope il naso fia.

Ti giovi ancora d’accusar sovente

Il dipintor, che non atteggi industre

L’agili membra e il dignitoso busto,

O che con poca legge a la tua imago

Dia contorno o la posi o la panneggi.

È ver, che tu del grande di Crotone [12]

Non conosci la scuola; e mai tua mano

Non abbassossi a la volgar matita

Che fu nell’altra età cara a’ tuoi pari

Cui sconosciute ancora eran più dolci

E più nobili cure a te serbate.

Ma che non puote quel d’ogni precetto

Gusto trionfator che all’ordin vostro

In vece di maestro il ciel concesse,

Et onde a voi coniò le altere menti

Acciò che possan de’ volgari ingegni

Oltre passar la paludosa nebbia,

E d’aere più puro abitatrici

Non fallibili scerre il vero e il bello?

Perciò qual più ti par loda, riprendi

Non men fermo d’allor che a scranna siedi

Raffael giudicando, o l’altro eguale

Che del gran nome suo l’Adige onora [13]:

E a le tavole ignote i noti nomi

Grave comparti di color che primi

Fur tra’ pittori. Ah s’altri è sì procace

Ch’osi rider di te, costui paventi

L’augusta maestà del tuo cospetto,

Si volga a la parete; e mentr’ei cerca

Por freno in van col morder de le labbra

Allor scrosciar de le importune risa

Che scoppian da’ precordj, violenta

Convulsione a lui deformi il volto,

E lo affoghi aspra tosse; e lo punisca

Di sua temerità. Ma tu non pensa

Ch’altri ardisca di te rider giammai;

E mai sempre imperterrito decidi.

Or l’immagin compiuta intanto serba

Perché in nobile arnese un dì si chiuda

Con opposto cristallo ove tu facci

Sovente paragon di tua beltade

Con la beltà de la tua Dama; o agli occhi

Degl’invidi la tolga, e in sen l’asconda

Sagace tabacchiera, o a te riluca

Sul minor dito fra le gemme e l’oro;

O de le grazie del tuo viso desti

Soavi rimembranze al braccio avvolta

De la pudica altrui Sposa a te cara.

Ma giunta è al fin del dotto pettin l’opra.

Già il maestro elegante intorno spande

Da la man scossa un polveroso nembo

Onde a te innanzi tempo il crine imbianchi.

D’orribil piato risonar s’udío

Già la corte d’Amore. I tardi veglj

Grinzuti osár coi giovani nipoti

Contendere di grado in faccia al soglio

Del comune Signor. Rise la fresca

Gioventude animosa, e d’agri motti

Libera punse la senil baldanza.

Gran tumulto nascea, se non che Amore

Ch’ogni diseguaglianza odia in sua corte

A spegner mosse i perigliosi sdegni:

E a quei che militando incanutíro

Suoi servi impose d’imitar con arte

I duo bei fior che in giovenile gota

Educa e nutre di sua man natura:

Indi fe’ cenno, e in un balen fur visti

Mille alati ministri alto volando

Scoter le piume, e lieve indi fiocconne

Candida polve che a posar poi venne

Su le giovani chiome; e in bianco volse

Il biondo, il nero, e l’odiato rosso.

L’occhio così nell’amorosa reggia

Più non distinse le due opposte etadi,

E solo vi restò giudice il Tatto.

Or tu adunque, o Signor, tu che se’ il primo

Fregio ed onor dell’amoroso regno

I sacri usi ne serba. Ecco che sparsa

Pria da provvida man la bianca polve

In piccolo stanzin con l’aere pugna,

E degli atomi suoi tutto riempie

Egualmente divisa. Or ti fa cuore,

E in seno a quella vorticosa nebbia

Animoso ti avventa. O bravo o forte!

Tale il grand’avo tuo tra ‘l fumo e ‘l foco

Orribile di Marte, furiando

Gittossi allor che i palpitanti Lari

De la patria difese, e ruppe e in fuga

Mise l’oste feroce. Ei non pertanto

Fuligginoso il volto, e d’atro sangue

Asperso e di sudore, e co’ capegli

Stracciati ed irti da la mischia uscío

Spettacol fero a’ cittadini istessi

Per sua man salvi; ove tu assai più dolce

E leggiadro a vedersi, in bianca spoglia

Uscirai quindi a poco a bear gli occhi

De la cara tua Patria a cui dell’Avo

Il forte braccio, e il viso almo, celeste

Del Nipote dovean portar salute.

Ella ti attende impaziente, e mille

Anni le sembra il tuo tardar poc’ore.

è tempo omai che i tuoi valetti al dorso

Con lieve man ti adattino le vesti

Cui la Moda e ‘l buon gusto in su la Senna

T’abbian tessute a gara, e qui cucite

Abbia ricco sartor che in su lo scudo

Mostri intrecciato a forbici eleganti

Il titol di Monsieur. Non sol dia leggi

A la materia la stagion diverse;

Ma sien qual si conviene al giorno e all’ora

Sempre varj il lavoro e la ricchezza.

Fero Genio di Marte a guardar posto

De la stirpe de’ Numi il caro fianco,

Tu al mio giovane Eroe la spada or cingi

Lieve e corta non già, ma, qual richiede

La stagion bellicosa, al suol cadente,

E di triplice taglio armata e d’elsa

Immane. Quanto esser può mai sublime

L’annoda pure, onde l’impugni all’uopo

La furibonda destra in un momento:

Né disdegnar con le sanguigne dita

Di ripulire ed ordinar quel nodo

Onde l’elsa è superba; industre studio

è di candida mano: al mio Signore

Dianzi donollo, e gliel appese al brando

La pudica d’altrui sposa a lui cara.

Tal del famoso Artù vide la corte

Le infiammate d’amor donzelle ardite

Ornar di piume e di purpuree fasce

I fatati guerrieri, onde più ardenti

Gisser poi questi ad incontrar periglio

In selve orrende tra i giganti e i mostri.

Figlie de la memoria inclite Suore

Che invocate scendeste, e i feri nomi

De le squadre diverse e degli Eroi

Annoveraste ai grandi che cantáro

Achille, Enea, e il non minor Buglione,

Or m’è d’uopo di voi: tropp’ardua impresa,

E insuperabil senza vostr’aita

Fia ricordare al mio Signor di quanti

Leggiadri arnesi graverà sue vesti

Pria che di se medesmo esca a far pompa.

Ma qual tra tanti e sì leggiadri arnesi

Sì felice sarà che pria d’ognaltro,

Signor, venga a formar tua nobil soma?

Tutti importan del par. Veggo l’Astuccio

Di pelle rilucente ornato e d’oro

Sdegnar la turba, e gli occhi tuoi primiero

Occupar di sua mole: esso a mill’uopi

Opportuno si vanta, e in grembo a lui

Atta agli orecchi, ai denti, ai peli, all’ugne

Vien forbita famiglia. A lui contende

I primi onori d’odorifer’onda

Colmo Cristal che a la tua vita in forse

Rechi soccorso allor che il vulgo ardisce

Troppo accosto vibrar da la vil salma

Fastidiosi effluvj a le tue nari.

Né men pronto di quella all’uopo istesso

L’imitante un cuscin purpureo Drappo

Mostra turgido il sen d’erbe odorate

Che l’aprica montagna in tuo favore

Al possente meriggio educa e scalda.

Seco vien pur di cristallina rupe

Prezioso Vasello onde traluce

Non volgare confetto ove agli aromi

Stimolanti s’unío l’ambra o la terra,

Che il Giappon manda a profumar de’ Grandi

L’etereo fiato; o quel che il Caramano

Fa gemer latte dall’inciso capo

De’ papaveri suoi [14] perché, qualora

Non ben felice amor l’alma t’attrista,

Lene serpendo per le membra, acqueti

A te gli spirti, e ne la mente induca

Lieta stupidità che mille aduni

Imagin dolci e al tuo desìo conformi.

A questi arnesi il Cannocchiale aggiugni,

E la guernita d’oro anglica Lente.

Quel notturno favor ti presti allora

Che in teatro t’assidi, e t’avvicini

Gli snelli piedi e le canore labbra

Da la scena rimota, o con maligno

Occhio ricerchi di qualch’alta loggia

Le abitate tenebre, o miri altrove

Gli ognor nascenti e moribondi amori

De le tenere Dame onde s’appresti

Per l’eloquenza tua nel dì vicino

Lunga e grave materia. A te la Lente

Nel giorno assista, e de gli sguardi tuoi

Economa presieda, e sì li parta,

Che il mirato da te vada superbo,

Né i malvisti accusarti osin giammai.

La Lente ancora all’occhio tuo vicina

Irrefragabil giudice condanni

O approvi di Palladio i muri e gli archi

O di Tizian le tele: essa a le vesti,

Ai libri, ai volti feminili applauda

Severa o li dispregi. E chi del senso

Comun sì privo fia che opporsi unquanco

Osi al sentenziar de la tua Lente?

Non per questi però sdegna, o Signore,

Giunto a lo specchio, in gallico sermone

Il vezzoso Giornal; non le notate

Eburnee Tavolette a guardar preste

Tuoi sublimi pensier fin ch’abbian luce

Doman tra i begli spirti; e non isdegna

La picciola Guaína ove a’ tuoi cenni

Mille stan pronti ognora argentei spilli.

O quante volte a cavalier sagace

Ho vedut’io le man render beate

Uno apprestato a tempo unico spillo!

Ma dove, ahi dove inonorato e solo

Lasci ‘l coltello a cui l’oro e l’acciaro

Donár gemina lama, e a cui la madre

De la gemma più bella d’Anfitrite

Diè manico elegante ove il colore

Con dolce variar l’iride imita?

Opra sol fia di lui se ne’ superbi

Convivi ogni altro avanzerai per fama

D’esimio Trinciatore, e se l’invidia

De’ tuoi gran pari ecciterai qualora,

Pollo o fagian con la forcina in alto

Sospeso, a un colpo il priverai dell’anca

Mirabilmente. Or ti ricolmi alfine

D’ambo i lati la giubba, ed oleosa

Spagna e Rapè cui semplice Origuela[15]

Chiuda, o a molti colori oro dipinto;

E cupide ad ornar tue bianche dita

Salgan le anella in fra le quali assai

Più caro a te dell’adamante istesso

Cerchietto inciso d’amorosi motti

Stringati alquanto, e sovvenir ti faccia

De la pudica altrui Sposa a te cara.

Compiuto è il gran lavoro. Odi, o Signore,

Sonar già intorno la ferrata zampa

De’ superbi corsier che irrequieti

Ne’ grand’atri sospigne arretra e volge

La disciplina dell’ardito auriga.

Sorgi, e t’appresta a render baldi e lieti

Del tuo nobile incarco i bruti ancora.

Ma a possente signor scender non lice

Da le stanze superne infin che al gelo,

O al meriggio non abbia il cocchier stanco

Durato un pezzo, onde l’uom servo intenda

Per quanto immensa via natura il parta

Dal suo Signore. I miei precetti intanto

Io seguirò; che varie al tuo mattino

Portar dee cure il variar dei giorni.

Tal dí ti aspetta d’eloquenti fogli

Serie a vergar, che al Rodano, al Lemano

All’Amstel, al Tirreno, all’Adria legga

Il libraio che Momo, e Citerea

Colmár di beni, o il più di lui possente

Appaltator di forestiere scene

Con cui per opra tua facil donzella

Sua virtù merchi, e non sperato ottenga

Guiderdone al suo canto. O di grand’alma

Primo fregio ed onor Beneficenza,

Che al merto porgi, ed[16] a virtù la mano!

Tu il ricco e il grande sopra il vulgo innalzi,

Ed al concilio de gli Dei lo aggiugni.

Tal giorno ancora, o d’ogni giorno forse

Den qualch’ore serbarsi al molle ferro

Che il pelo a te rigermogliante a pena

D’in su la guancia miete, e par che invidj,

Ch’altri fuor che lui solo esplori o scopra

Unqua il tuo sesso. Arroge a questi il giorno

Che di lavacro universal convienti

Bagnar le membra, per tua propria mano,

O per altrui con odorose spugne

Trascorrendo la cute. È ver che allora

D’esser mortal ti sembrerà; ma innalza

Tu allor la mente, e de’ grand’avi tuoi

Le imprese ti rimembra e gli ozj illustri

Che insino a te per secoli cotanti

Misti scesero al chiaro altero sangue,

E l’ubbioso pensier vedrai fuggirsi

Lunge da te per l’aere rapito

Su l’ale de la Gloria alto volanti;

Et indi a poco sorgerai qual prima

Gran Semidéo che a se solo somiglia.

Fama è così, che il dì quinto le Fate

Loro salma immortal vedean coprirsi

Già d’orribili scaglie, e in feda serpe

Volta strisciar sul suolo a se facendo

De le inarcate spire impeto e forza;

Ma il primo sol le rivedea più belle

Far beati gli amanti, e a un volger d’occhi

Mescere a voglia lor la terra e il mare.

Fia d’uopo ancor, che da le lunghe cure

T’allevj alquanto, e con pietosa mano

Il teso per gran tempo arco rallenti.

Signore, al ciel non è più cara cosa

Di tua salute: e troppo a noi mortali

è il viver de’ tuoi pari util tesoro.

Tu adunque allor che placida mattina

Vestita riderà d’un bel sereno

Esci pedestre, e le abbattute membra

All’aura salutar snoda e rinfranca.

Di nobil cuojo a te la gamba calzi

Purpureo stivaletto, onde il tuo piede

Non macchino giammai la polve e ‘l limo,

Che l’uom calpesta. A te s’avvolga intorno

Leggiadra veste che sul dorso sciolta

Vada ondeggiando, e tue formose braccia

Leghi in manica angusta a cui vermiglio

O cilestro velluto orni gli estremi.

Del bel color che l’elitropio tigne

Sottilissima benda indi ti fasci

La snella gola: E il crin... Ma il crin, Signore,

Forma non abbia ancor da la man dotta

Dell’artefice suo; che troppo fora,

Ahi! troppo grave error lasciar tant’opra

De le licenziose aure in balía.

Non senz’arte però vada negletto

Su gli omeri a cader; ma, o che natura

A te il nodrisca, o che da ignota fronte

Il più famoso parrucchier lo tolga,

E l’adatti al tuo capo, in sul tuo capo

Ripiegato l’afferri e lo sospenda

Con testugginei denti il pettin curvo.

Poi che in tal guisa te medesmo ornato

Con artificio negligente avrai,

Esci pedestre a respirar talvolta

L’aere mattutino; e ad alta canna

Appoggiando la man, quasi baleno

Le vie trascorri, e premi ed urta il volgo

Che s’oppone al tuo corso. In altra guisa

Fora colpa l’uscir, però che andrièno

Mal distinti dal vulgo i primi eroi.

Ciò ti basti per or. Già l’oriolo

A girtene ti affretta. Ohimè che vago

Arsenal minutissimo di cose

Ciondola quindi, e ripercosso insieme

Molce con soavissimo tintinno!

Di costì che non pende? avvi per fino

Piccioli cocchi e piccioli destrieri

Finti in oro così, che sembran vivi.

Ma v’hai tu il meglio? ah sì, che i miei precetti

Sagace prevenisti: ecco che splende

Chiuso in picciol cristallo il dolce pegno

Di fortunato amor. Lunge o profani,

Che a voi tant’oltre penetrar non lice.

E voi dell’altro secolo feroci,

Ed ispid’avi i vostri almi nipoti

Venite oggi a mirar. Co’ sanguinosi

Pugnali a lato le campestri rocche

Voi godeste abitar, truci all’aspetto,

E per gran baffi rigidi la guancia

Consultando gli sgherri, e sol giojendo

Di trattar l’arme che d’orribil palla

Givan notturne a traforar le porte

Del non meno di voi rivale armato.

Ma i vostri almi nipoti oggi si stanno

Ad agitar fra le tranquille dita

Dell’oriolo i ciondoli vezzosi;

Ed opra è lor se all’innocenza antica

Torna pur anco, e bamboleggia il mondo.

Or vanne, o mio signore, e il pranzo allegra

De la tua dama: a lei dolce ministro

Dispensa i cibi, e detta al suo palato

E a la sua fame inviolabil legge.

Ma tu non obliar, che in nulla cosa

Esser mediocre a gran Signor non lice:

Abbia il popol confini; a voi natura

Donò senza confini e mente, e core.

Dunque a la mensa, o tu schifo rifuggi

Ogni vivanda, e te medesmo rendi

Per inedia famoso, o nome acquista

D’illustre voratore. Intanto addio

Degli uomini delizia, e di tua stirpe,

E de la patria tua gloria e sostegno.

Ecco che umíli in bipartita schiera

T’accolgono i tuoi servi: altri già pronto

Via se ne corre ad annunciare al mondo,

Che tu vieni a bearlo; altri a le braccia

Timido ti sostien mentre il dorato

Cocchio tu sali, e tacito, e severo

Sur un canto ti sdrai. Apriti o vulgo,

E cedi il passo al trono ove s’asside

Il mio Signore: ahi te meschin s’ei perde

Un sol per te de’ preziosi istanti.

Temi ‘l non mai da legge, o verga, o fune

Domabile cocchier, temi le rote,

Che già più volte le tue membra in giro

Avvolser seco, e del tuo impuro sangue

Corser macchiate, e il suol di lunga striscia,

Spettacol miserabile! segnáro.

 

Note

__________________________

 

[1] Il Caffè

[2] Madonna Laura

[3] Alamanni, Coltivaz.

[4] Filli cangiata in mandorlo. V. la Favola.

[5] Phallo, Iside

[6] La pucelle d’Orleans

[7] Ninon de Lenclos

[8] La Fontaine

[9] Boccaccio

[10] Ariosto

[11] Si accennano romanzi, e novelle di vario genere.

[12] Zeusi

[13] Paolo Veronese

[14] l’Oppio

[15] Radice onde si fanno scatole da tabacco, così detta dalla città di questo nome

[16] altra versione: Che al merto porgi, e a la virtù la mano

 

 

Indice Biblioteca Progetto Parini 

© 1996 - Tutti i diritti sono riservati

Biblioteca dei Classici italiani di Giuseppe Bonghi

Ultimo aggiornamento: 31 maggio 2006

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