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Privacy Policy Cookie Policy Terms and Conditions Giovanni Pascoli - Nota a Le Canzoni di Re Enzio

Giovanni Pascoli

 

Nota  a Le canzoni di Re Enzio

 

 

 

 

Edizione di riferimento

Giovanni Pascoli, primo, con due saggi critici di Gianfranco Contini e una nota bio-bibliografica, Oscar Classici, Arnoldo Mondadori editore, Milano 1974, III edizione (I ed. 1939)

 

 

 NOTE

 

 

Lettore! Le poesie non vorrebbero note, come gli arbusti farebbero di meno dei cartelli col nome latino, attaccati a un nodetto di fil di ferro, che qualche volta incide la corteccia o strozza la pianta. E tuttavia eccoti le note, eccoti i nomi latini, eccoti tanto fil di ferro attorno ai gracili versi. Perché? Perché questo e altri libretti consimili che io sto componendo intendono, più che ad altro, a richiamare ii tuo pensiero alle fiere vicende dell'età di mezzo e a rendere un alito di vita ai tempi lontani dei quali pur tanti monumenti sono avanti ai nostri occhi. L'autore di questa [1] e delle altre canzoni che vedrai non ha altra mira che divulgare, cantando come un giuculare del Medioevo, i nobili studi del grande maestro che Bologna ha la fortuna di ospitare, Pio Carlo Falletti, e dell'altro, che Bologna ha la gloria d'aver dato alla luce, Alfonso Rubbiani, dalla cui opera concorde Bologna attende, dopo tanti altri, il maggior miracolo della sua risurrezione storica artistica poetica. Il giuculare di queste canzoni vuole darvi un qualche saggio dei severi volumi che tanti magnifici storiografi hanno elaborati intorno alla turrita Bologna dal Gozzadini al Cavazza, dal Malaguzzi-Valeri all'Ambrosini, dalla «gesta» (ora vedrai che cosa è gesta) dalla gesta di Luigi, Enrico, Ludovico, Carlo Frati alla pleiade della Deputazione di Storia Patria, nella quale basti citare un nome: Albano Sorbelli.

Leggi, dunque, o paziente lettore, anche i cartellini, se pur tu non voglia leggere se non questi soli; e impara un poco, e invògliati d'imparar sempre più, della grande storia d'Italia; grande quando Roma dominò sul mondo, non meno grande allorché l'impero romano si scisse nelle sue due funzioni, la politica e la sacerdotale; che cozzarono lunghi secoli per invadersi a vicenda e per reintegrarsi l'una nell'altra.

 

 

LA CANZONE DEL CARROCCIO

 

Pag. 1133, v. 21.

Vedi l'elenco dei prigionieri della Fossalta in Lod. Frati, La prigionia del Re Enzo, Bologna, 1902, pagg. 90-114. Nel pallatio novo Comunis Bononiae col re era Dominus Comes Conradus, quello stesso che il 1 maggio del 1263 fu tolto e rimosso e posto in altro luogo, perché la sua compagnia era intollerabile e noiosa al re prigioniero. Era conte di Solimburgo, come ha il Ghirardacci nella sua Historia di Bologna. E in altre prigioni erano rattenuti altri tedeschi, tra cui un Brettoldus de Lostal o Bertoldus de Astal, ossia, come pare, Harstall, che riuscì a fuggire con altri nel 1253 (Savioli, Ann. Bol., iii p. 1. pag. 268).

 

Pag. 1133, v. 24.

Era custodito anch'esso nell'Arengo nuovo (Frati, 91) e relaxatus est, a istanza del Papa. Si sa dove Dante lo mise, per il tradimento che poi fece a Manfredi (Inf. xxxii, 115 e segg.):

Ei piange qui l'argento de' Franceschi:

Io vidi — potrai dir — quel da Duera

là dove i peccatori stanno freschi.

 

Pag. 1134, v. 14.

I bovi bianchi in Italia, dice Varrone (RR. n, 5, 10), non... frequentes. Più dei bianchi, e anche dei neri, erano numerosi i rossi (robeo, donde «roggio», colore) e i gialli miele. I bianchi, che erano i più fiacchi al lavoro, si serbavano ai solenni sacrifizi. Celebri, per questo riguardo, erano i bovi del Clitumno. Verg. Georg. n, 146. Vennero poi i bianchi coi barbari. E si ha da credere che non subito mettessero in bando i rossi, ma a poco a poco; ché nelle parti meridionali e specialmente in Sicilia i bovi rossi, magri e corridori, tengono ancora il campo.

 

Pag. 1135, v. 19.

E sul principio dovevano i coltivatori aggiogare il nuovo venuto bianco al vecchio bove indigeno robeo; se anche oggi, inconsapevolmente, il contadino romagnolo grida al suo paio, che è pur di due belli e grandi bovi bianchi: Bi e Ro: che sono le iniziali di Bianco e Rosso.

 

Pag. 1136, v. 2.

Do, dei manenti, la definizione che è negli Statuti Bolognesi del 1250 (1, pag. 481: ed. Frati): «Manentes... appellamus qui solo alieno ita se astrinxerunt ut nec ipsi nec sui liberi invitis dominis a solo discedere valeant». E più genericamente ed esattamente in Ranfrido (l. c., pag. cit.): «Manentes sunt qui in solo alieno manent, in villis, quibus nec liberis suis invito domino licet recedere». Io chiamo manenti i servi della gleba indigeni. Quanto agli arimanni è ancor controversa la loro origine e condizione. Certo gli arimanni del contado di Bologna non erano liberi, messi come sono a fascio con gli altri servi: «Ordinamus quod aliquis non possit deinceps esse manente vel astrictus ascripticius, vel conditionalis sive arimannus». Ma quelli che erano già, rimasero. Per me gli arimanni erano servi della gleba, a condizione quanto si voglia mitigata, ma d'origine langobarda. Come si vedrà appresso.

 

Pag. 1136, v. 8.

Nello statuto cxlv del 1250 si stabilisce e ordina che per amor di Dio e della Beata Maria vergine si diano iohanni tonso, qui firmat et apperit portas stabule palacij comunis bononie, pro suo merito et labore C. sol. bon. in festivitate omnium sanctorum (Stat. comm. Bon. ii, 148). Nei medesimi, vol. iii, 214 e' 15, si leggono altre provvidenze per il buon vecchierello, chiamato qui custode delle porte dell'Arengo (curie): che, oltre l'annuale paga di cento soldi di bolognini, li si dia per Ognissanti tanto di panno bono di mezzalana da farsene un vestito e un mantello frodato di pelli d'agnello, e un cappuccio nel mese di gennaio, che non gli possano essere ritolti. E abbia pane e vino dal Podestà e non possa essere sindacato e rimosso. E c'è una giunta: che, sendo il predetto Giovanni lumine gravatus occulorum ultra quam sit sollitus, gli si permetta l'aiuto che gli può dare homo bonus frater eius. Circa il vernacolo Zuam, cfr. Zuam de Becaria in Parlamenti ed epistole, Augusto Gaudenzi, Dialetto... di Bologna, pag. 170.

 

Pag. 1136, v. 16.

È parola in Stat. predetti, iii, 158, di bonifacius qui sonat campanas comunis, che ha di suo soldo lire dieci di bolognini, e perché fa il servizio bene et fideliter, e ora ha più da fare (per la custodia di Enzio, verisimilmente), gli si dia un vestito e una guarnacca e una pelle come quelli che si danno ai banditori e si davano a Deodato delle campane; e perché ha da stare giorno e notte in palazzo, e non conviene che discenda, abbia dal podestà pane e vino e companatico, come gli altri servitori del podestà.

 

Pag. 1136, v. 25.

Fu nel 1188, quando, a detta del cronista Matteo de' Griffoni (Mem. Hist. pag 6), duo milia Bononienses et ultra iverunt ultra mare pro recuperatione Terrae Sanctae Ecclesiae: et multi ex eis nunquam reversi fuerunt... Tra questi dominus Ursu de Chaçanimicis... dominus Scappa de Garisendis... dominus Petrus de Asinellis... Il Toso, se era nato, come si vedrà appresso, col Carroccio, cioè nel 1173, ora, nel 1251, era sui 78 anni.

 

Pag. 1137, v. 5.

E questa volta fu nel 1217, e fu memorabile. «Allorché Giovanni di Brienne (uno de' suoceri di Federico II) invocava soccorsi alla Palestina (1217), in Bologna si formarono due schiere di crociati; nell'una convennero i ghibellini, nell'altra i guelfi. – I primi si elessero a condottiero Bonifazio de' Lambertazzi, i secondi Baruffaldino de' Geremei. Da quel dì innanzi il nome delle costoro famiglie divenne un grido di guerra... (Savioli)». Così si legge in Il dominio della parte Guelfa in Bologna di Vito Vitale (Bologna, Zanichelli 1902).

 

Pag. 1137, v. 18.

Nel 1185, quando Zuam era putto di 12 anni, Imperator Federicus et Pocaterra, eius filius, intraverunt Bononiam; s'intende con buona pace de' Bolognesi. Matth. de Griff, Mem. Hist., p. 6.

 

Pag. 1137, v. 27.

Fu nel 1223, secondo il medesimo cronista (p. 8): Sanctus Franciseus de Ordine fratrum Minorum primo predicavit in platea comunis Bononiae. Ma il tremuoto e la predica, a cui allude la canzone, avvennero sull'ultimo dell'anno precedente. Su che vedi il bellissimo libro del nostro Alfonso Rubbiani, La chiesa di S. Francesco in Bologna, Bologna, Zanichelli 1886, pagg. 1 e 2. E si leggano qua e là i Fioretti, specialmente il cap. xxvi, il lv e il xv e altri.

 

Pag. 1139, vv. 4 e 6.

Lo statoio (stadûr) è una caviglia di ferro con grosso cerchio pendente in cima. Le zerle sono verghe che servono come di timone ai bovi davanti.

 

Pag. 1139, vv. 17 e segg.

Armi da getto: Trabucchi, Mangani, Balestre grosse, Truli, saettamento. Armi dei milites o equites: Panceriam sive cassettium, Gamberias sive schinerias, collare, cirotica ferri, Capellinam vel capellum ferri, Elmum et Lanceam, Scutum et Spatam sine Spontonem, et Cultellum et bonam sellam ad equum ab armis et bonam cervileriam. Stat. Mut. 1328, lib. i, Rubr. 24 in Mur., Ant. It., diss. 26a.

Vedi poi Salimbene, Ediz. dell'Holder-Egger, in Mon. Germ. Hist. Scriptores, xxxii, pagg. 36 e 60.

 

Pag. 1140, v. 2.

Noto è come a Federigo II, che minacciava per riavere il figlio, rispondesse Bologna con parole di Rolandino de' Passeggeri: non sumus arundines paludine que vento modico agitantur... Vedi Frati, La prig., pag. 117.

 

Pag. 1141, v. 2.

Il Duddo o vesterarius, presso i Langobardi, esercitava l'uffizio di tesoriere e guardarobiere; lo scafardo, di amministratore del denaro.

 

Pag. 1141, vv. 4 e segg.

Lo Sculdahis o centenario o locoposito fu poi un capo civile, militare, giudiziario come il duca, ma di distretti campestri. Fara è il nome della famiglia langobarda, esteso certo come quello latino di «gente». I gasindi erano consiglieri e coadiutori del re. L'eribanno era la chiamata all'armi degli uomini liberi o arimanni o exercitales. Si sa come i Langobardi fecessero grande allevamento di porci e come sin d'allora bene li cucinassero e salassero.

 

Pag. 1143, v. 17.

Le compagnie delle armi, su che vedi lo studio di Augusto Gaudenzi nel Bull. dell'I. S. I., n. 8, furono, almeno un certo tempo, cinque per quartiere, e di più quattro appartenenti a tutti. Queste erano quelle della Stella, dei Lombardi, dei Toschi, dei Beccai per l'armi. Le altre nel 1306 s'erano ridotte a Leoni, Aquile, Grifoni, Branca; Spade, Drappieri per l'armi, Leopardi, Vari; Castelli, Quartieri, Traverse, Schise; Chiavi, Dragoni, Balzani.

 

Pag. 1145, v. 3.

I quattro gonfaloni de' Quartieri avevano nelle insegne ciò che è nel v. 6 di pag. 1146; di più, ma non so da quando, un santo: S. Pietro, S. Francesco, S. Domenico, S. Petronio. La croce rossa divideva in quattro parti l'insegna bianca.

 

Pag. 1145, v. 13.

Su gli Andalò e gli altri grandi casati bolognesi, ghibellini e guelfi, cioè de' Lambertazzi e de' Geremei, vedi il prezioso libro Delle torri gentilizie di Bologna ecc., del conte Giovanni Gozzadini, Bologna, Zanichelli 1880. Alberto de' Cazzanemici si denominava Alberto dalle iniquità.

 

Pag. 114.5, v. 21.

Callegari, calzolai di pelle grossa; bisilieri, tessitori di panni di bigello.

 

Pag. 1146, v. 3.

L'orso, arma dei Cazzanemici grandi, detti appunto dell'orso. Il leoni rampante a scacchi con la rosa all'orecchio era l'arma dei conti da Panico, terribili conti, intorno ai quali vedi Gozzadini, Op. cit., pag. 388 e segg.

 

Pag. 1146, v. 7.

La gaiferia, vel cuba o çuba o cuppa (Stat. delle Società del popolo... a cura di Augusto Gaudenzi, pagg. 17, 110, 136, e altrove) doveva aver lo stemma o arma delle società.

 

Pag. 1146, v. 20.

Comazzo, de' Galluzzi, di parte geremea, ad Uspinello, de' Carbonesi, di parte lambertazza. Notissima l'inimicizia di queste due grandi famiglie, e la tragica fine d'una donzella e d'un giovane amanti e sposi contro la volontà de' loro consorti.

 

Pag. 1146, v. 24.

Non fu veramente un angelo, sì i Parmensi medesimi che lo presero e non vollero ritenerlo dopo la battaglia di S Cesario «Et Mutinenses voluerunt carrocium Bononiensium tollere, et secum in Mutinam ducere, sed Parmenses non permiserunt... Et crediderunt Parmensibus Mutinenses... et dimiserunt illud in Plumatio». In quella battaglia manganelle fuerunt Bononiensibus violenter ablate. Vedi Salimbene, pag 60 (ediz, cit.) E i confederati di Modena, Parma e Cremona abbeverarono i cavalli nell'acque di Reno. Id. pag. 35 e segg.

 

Pag. 1146, v. 30.

L'asino. Nel mese di settembre dell'anno stesso di Fossalta (maggio del 1249) Bononienses... cum uno mangano protecerunt unum asinum vivum in Mutinam. Matth. de Griff., Mem. Hist., p. 12.

 

Pag. 1147, v. I.

Blancardo, Buira, come più su Berta e Bertazzola, sono nomi dimestici de' carrocci. Berta era il Carroccio de' Padovani, Blancardo quello di Parma. Così Gaiardo (e anche Berta, come è nel Chron Est., 45) quello di Cremona, Regolio quello più antico di Parma. Quanto all'ultimo accenno, si tratta d'un Carroccio fatto dai Parmensi imperiali nel 1236. Vedi Chron. Parm., pag. 11.

 

Pag. 1147, v. 5.

I Lombardi. Grande dissidio intorno alla Compagnia de' Lombardi, quando e perché nascesse in Bologna, tra il conte Nerio Malvezzi, che la narrò in un garbato volumetto, e Augusto Gaudenzi, il grande maestro in tali argomenti. Devo dire? Io inchino alla sentenza di quest'ultimo; eppur confesso che mi fa molta forza il considerare come l'istituzione del Carroccio in Bologna fosse del 1173, come s'è notato, o prima, ossia durante la lotta col Barbarossa.

 

Pag. 1148, v. 14.

È Ariberto arcivescovo che sommuove e collega i popolani delle campagne contro i vassalli minori, nel 1037-'39.

 

Pag. 1149, v. 3.

È Lanzone, il capitano del popolo milanese contro i nobili, nel 1041 e segg.

 

Pag. 1149, v. 17.

Milano distrutta a cominciare dal 26 marzo 1162.

 

Pag. 1149, v. 20.

Giuramento nel monastero di Pontida, il 7 aprile 1167.

 

Pag. 1150, v. 5.

L'arator selvaggio: il Barbarossa. Vedi sopra a pag. 1137, v. 20. Che il Barbarossa facesse arare e seminar di sale Milano, cioè qualche luogo in essa città, a guisa di simbolo, non è inverosimile; certo fu detto e creduto: «trovando la città di Milano che gli s'era rubellata, sì l'assediò, e per lungo assedio l'ebbe l'anno di Cristo 1158 (67) del mese di marzo e fecele disfare le mura, e ardere tutta la città, e arare e seminare di sale...» Vill., I. F., v, cap. 1. Il medesimo racconta la stessa cosa di Arezzo per opera di Totila in 1, 47. E cosa è affermato in Vita Witichindi di H. Meibomius (R. G. J., pag. 625): «propter rebellionem periura (urbs Mediolani), tyrannidem aliaque scelera a Germanici sanguinis Imperatore solo aequata aratrisque in agri speciem proscissa, non frugis, sed ad ludibrium salis semen accepit». Tacciono la circostanza di tal ludibrio i cronisti e storici milanesi. Essa è raccolta dal Tommaseo in Diz., iv, 1, 509, e, per non parlar d'altri, dal Carducci nell'ode per l'viii agosto, vv. 46-47:

 

.    .      .    .    .    .    .    .    .    .    l'ira

porlo e il ferro ed il sal di Barbarossa.

 

E siffatto rito d'esecrazione, come a condannare alla desolazione eterna di salso deserto il suolo d'una città, è ben antico! Vedi Liber Iudicum, cap. 9 (urbe destructa, ita ut sal in ea dispergeret), Hieronym. in Matth. cap. 5, Glossar, milit. di Carlo d'Aquino e altri.

 

Pag. 1150, v. 9.

Legnano! Il 29 di maggio 1176.

 

Pag. 1150, v. 13.

Otto Morena in Hist. Laud. dice che il Barbarossa, non però a Legnano, si gettò contro il Carroccio, dove era lo sforzo de' pedoni, uccise i bovi, portò via la croce e il vessillo. Citato nella Diss. cit. del Muratori in Ant. It.

 

Pag. 1150, v. 26.

Alberto da Giussano, personaggio forse leggendario dell'epica battaglia. Chi non lo conosce dalla Canzone di Legnano?

 

Pag. 1151, v. 24.

«sublimis est pertica sursum erecta cum pomo aereo deaurato, in qua inter alia insignia rubeum tentorium ponitur et vexillum longissimum, cum cruce alba, et desuper ramus olivae... ». Così del Carroccio di Pavia, l'An., De laud. Papiae, in R. I. S., xi.

 

Pag. 1152, v. 18.

Il milliarium aureum.

 

Pag. 1155, v. 17.

Sì: Bologna considerò il re Enzio, un po' come Roma la lupa e Fiorenza il leone, quello che uscì dalla sua stia e prese tra le branche Orlanduccio (Vill., vi, 69). E Parma aveva la sua «leona». Chr. Parm., pag. 91.

 

Pag. 1155, v. 21.

«Cum... serenitatis nostrae gremium abundet copia filiorum...». Parole di Federigo al comune di Modena: vedi in Frati, La prig., p. 117.

 

Pag. 1155, v. 22.

Era ben cosciente Federigo del suo sogno di rinnovare l'antico imperio! Nell'agostaro, per esempio, « improntato era il viso dello 'mperadore a modo di Cesari antichi, e dall'altro una aguglia... ». Vill., vi, 21.

 

Pag. 1155, vv. 28 e segg.

Vedi il Testamento del re prigione nell'Op. cit. di Lodovico Frati.

 

Pag. 1157, v. 4.

Fu preso il 26 maggio 1249. Ora siamo all'8 ottobre del 1251.

 

Pag. 1157, v. 14.

Queste ed altre seguenti sono parole desunte dalle lettere di Federigo ai Bolognesi.

 

Pag. 1158, v. 28.

Per il ferino corteo dell'imperatore, vedi, ad esempio, Salimbene, pag. 196 e segg. Per l'elefante, Sigonio, De regn. Ital., xvii.

 

Pag. 1159, v. 21.

Come a Cortenuova.

 

Pag. 1159, v. 22.

Già comincia il conte Currado a dar prova della sua societas intollerabilis et inepta, che lo fece poi, dopo 12 anni, rimuovere di lì. Stat. Comm. Bon., 111, 490.

 

Pag. 1160, v.

È verisimile che Enzio nulla sapesse della morte (13 dicembre 1250) del suo grande genitore, un anno presso a poco dopo che ella era avvenuta? È, direi, più che probabile. Fra Salimbene insiste singolarmente su ella: che l'imperatore «non credebatur mortuus». Pag. 243. Dice che Manfredi ne occultava la morte, per prevenire Corrado suo fratello, e così «multi crediderunt eum non esse mortuum, cum vere mortuus esset». Pag. 347. Narra d'un eremita che fu fatto passare per Federigo. Pag. 173. Infine, in quei medesimi giorni, Salimbene seppe l'avvenimento da Innocenzo in persona, a Ferrara: «firmiter nuntiatum est nobis»; e prima non lo credeva. Pag. 174.

 

Pag. 1161, v. 22.

Il Mondo è questa Europa occidentale. Il Regno di Dio è l'Oriente.

 

Pag. 1162, v. 5.

La profezia è in Salimbene, p. 349: «In ipso quoque finietur imperium, quia, etsi successores sibi fuerint, imperiali tamen vocabulo ex romano fastigio privabuntur».

 

Pag. 1162, v. 9.

Da Merlino.

 

Pag. 1163, v. 9.

Fu Innocenzo IV che primo diede ai cardinali la veste rossa e la mazza d'argento.

 

Pag. 1163, v. 16.

Il Mur. nella Diss. 26a, riporta dagli Statuti di Ferrara, tra le altre denominazioni di armi offensive e difensive, anche Tallavacium sive bonam Targetam.

 

Pag. 1165, v. 9.

Vedi Savioli, iii i, p. 246. E così in lui è il racconto del Carroccio che va incontro al Papa trionfante. Come era uso. Per esempio narra il Griffoni (Mem. Hist., ad a. mcccxxvii) che incontro al cardinal legato Bertrando fu mandato il Carroccio cum x militibus bononiensibus et ducentis bagurdatoribus noviter indutis ad unum intaglium. Così a Firenze incontro al cardinale Pelagrù andò il Carroccio con armeggiatori. Vill., vi, 77, Comp., III, 85.

 

 

LA CANZONE DEL PARADISO

 

Pag. 1169, vv. 1, 2, 4, 8.

Cavedagna: strada campestre; biroccio: più secondo l'etimo così che baroccio; brasche: un telaio, per così dire, di legno, messo sul biroccio o sul carro, per renderlo più largo e capace; chiercie, non cerchie, avrei voluto dire coi toscani dell'Apennino: correggiati per battere il grano. I bolognesi dicono: zerci.

 

Pag. 1169, v. 11.

Fantino o fantolino: bimbo. Ricorda la graziosa canzoncina popolare bolognese del duecento, edita dal Carducci (Cantilene e ballate, 1871) e dal Casini (Le rime dei Poeti Bolognesi del secolo XIII, 1881). Eccola in una lezione quasi al tutto fedele (cfr. Crest. It. per Ernesto Monaci, p. 294)

 

For de la bella caiba fuge lo lusignolo.

Piange lo fantino però che non trova

lu so asilino ne la gaiba nova,

e dise cum dolo: chi gli avrì l'usolo?

e dise cum dolo: chi gli avrì l'usolo?

E in un boschetto se mise ad andare,

sentì l'oseletto sì dolze cantare:

oi bel lusignolo, torna nel meo broylo

oi bel lusignolo, torna nel meo broylo.

 

Pag. 1169, v. 16.

Flor d'uliva. Dolce nome che, latinizzato in Flos olivae, si trova in una antica lista di nomi.

 

Pag. 1169, vv. 18 e segg.

Per questi versi e per quelli di pag. 1170 e pag. 1171 della canzone o romanza di Flor d'uliva, cfr. Barzaz Breiz di Hersart de la Villemarqué, pag. 146. Per il metro ricorda la Romance di Gaiete et Oriour, che troverai nel Bartsch, Chrest. Franç., a coll. 61, 62; e il confronto che, per esso metro, fa con questa, del famoso contrasto di Ciullo o Cielo, lo Jeanroy, in Les origines de la Poés. lyr. en Fr., pag. 257. Sono tre versi maggiori, rimati insieme, seguiti da due minori pure insieme rimati. Quanto alle forme dialettali ed arcaiche, vedi Gaudenzi, I suoni, le forme e le parole dell'odierno dial. di Bologna, e in esso gli Antichi testi bolognesi inediti, da pag. 127 a pag. 224. Vedi anche Casini, op. cit., Voci e passi di Dante di Ott. Mazzoni Toselli, e altri libri e documenti. Per togliere ogni offensione trascrivo qui la romanza o canzone o lay, in forma più moderna:

 

IL RITORNO DEL CROCIATO

 

Sette anni pianse, oimè sett'anni sani,

e scalza andava, un vinco nelle mani.

Pecore e capre aveva intorno, e i cani.

Sette anni, oimè tapina schiava,

sett'anni pianse: un dì cantava...

 

Passava un cavaliere della croce.

Sentì lassù la dolce chiara voce.

Legò il cavallo con la briglia a un noce.

« Vocina chiara come argento,

sette anni è, sì, che non ti sento! »

 

Legò il cavallo, e le si fece avanti.

«Deh! pastorella, Dio te guardi e i Santi:

mangiasti bene, così gaia tu canti! »

« Voi dite, la Dio grazia, vero.

Mangiammo, i cani ed io, pan nero ».

 

Il cavaliere la mirò con doglia.

Nei tuoi capelli sempre il vento broglia:

lascia tra i ricci l'erba, il fior, la foglia ».

« Il vento no, non è, mio sire:

è che nel fieno ho da dormire ».

 

Al cavaliere ansava forte il petto.

« In quel castello, ov'albergare aspetto,

dimmi s'io posso ritrovare un letto ».

Di piume, io l'ebbi, in quel castello,

col sire mio sì biondo e bello! »

 

«Tristo a cui ti fidai nel mio passare!

Mia dolce sposa, io torno a te dal mare ».

E si toglieva l'elmo ed il collare:

e per le spalle, a mo' dell'onde,

scorrean le lunghe ciocche bionde.

 

Per broglia cfr. Div. Com., Par. xxvi, 97:

Talvolta un animal coverto broglia,

e s'interpreta: si muove, si dimena.

Al mo' di questa riduco anche la prima delle altre due canzoni di Flor d'uliva, sebbene, a dir vero, non ve ne sia gran bisogno:

 

SANTA FILOMENA

 

In una grotta in riva della Zena

c'è un vieni e vai, ma che si sente appena...

gràpari gràpari tra...

Ell'è una donna che tesse che tesse,

una spola che va che va...

 

Un drago aspetta, attento, che si spicci;

il giorno sta con gli occhi fissi ai licci...

gràpari gràpari tra...

Finito ch'abbia quello ch'ella tesse,

dopo, il drago la mangerà.

 

Ma, guarda e guarda, gli occhi a sera ei vela.

Ei dorme, ed ella stesse la sua tela...

gràpari gràpari tra...

Il giorno fa, la notte sfa, ché tesse

la tela dell'eternità.

La leggenda è antica, di che vedi le Trad. Pop. It., ii, pag. 196; ed è, come si vede, una curiosa trasformazione del mito di Penelope. Il ritornello sembra aver un senso, e significare, in bretone: «Fa quel che fai, bene ». Vedi Villermarqué, pag. 417.

Circa alla canzone del Re Morto, si può veder quella leggendina nel proemio del Lu Cunto delli cunti del Basile, e della traduzione in bolognese col titolo La Ciaqlira dla banzola.

I versi sono novenari, somiglianti a quelli del Lamento della sposa padovana (vedilo in Cantilene e Ballate di Giosue Carducci, pag. 22 e segg.), con andatura per lo più giambica:

Rispònder vòi a dòna Frìxa

ke mè consèia en là soa guìsa.

 

Pag. 1170, vv. 81 e segg.

Per molti particolari campestri del contado di Bologna vedi il grazioso libretto di A. Rubbiani: Etnologia Bolognese, Bologna, 1882. Per es., l'arzdòur è colui che attende più specialmente ai lavori campestri, al biolc quello che ha cura de' buoi e della stalla. Manipelli (bol. manvì) sono i manipoli.

Per altri nomi, usi e superstizioni vedi: Trad. Pop. It., i, pagg. 71, 78, 385, 511, 898, 934. Giovi ricordare qui gli aierini (pag. 1173, v. 18 e al.) o aiarên che sono gli spiriti dell'aria, gli angeli restati a mezza via tra il cielo e la terra entro la quale inabissarono i ribelli, i daimones fugati dal Cristo.

 

Pag. 1173, v. 2.

Le panche. Vedi Atti Dep. Stor. Patr. per la Rom., Serie 3, x, pag. 10.

 

Pag. 1175, v. 6.

Lebe, che traduce il bol. aibi e rom. ebi, vale abbeveratoio, e mi sembra da aggiungere a mâtra, calzêdar e simili voci lasciate sulle spiaggie dell'Adriatico dai bizantini.

 

Pag. 1181 e segg.

« Bonacursio Prefetto del Popolo (credo, Capitano del Popolo; il Ghir. ama cangiare in belle parole romane i nomi degli uffizi comunali) alli 25 di Giugno (anno 1256) raunò gli Antiani, Consoli (Antiani e Consoli sono tutt'uno), Maestri delle Arti et dell'Armi (Massari, credo), con tutti i Consiglieri così del picciolo, come del gran Consiglio, et propose loro, se si contentauano, che i Serui, et le Serue che apparteneuano al Commune, et Popolo di Bologna fossero come tutti gli altri habitatori tanto della Città, come fuori nel contado, o fossero liberi, tutti si contentarono... » (Ghir., Hist. di Bol., vi, pag. 190 e segg.).

Il Decreto de' Serui liberati, de' quali accanto si è detto, fu messo fra le leggi dai legislatori alli 3 di Giugno (anno 1257)...» (Id., ib., pag. 193)

Tra la proposta e la registrazione del Decreto si sbrigò sollecitamente la cosa. In vero «il Pretore (cioè il Podestà), et il Prefetto (cioè il Capitano del Popolo) alli 26 d'Agosto (anno 1256) pronunciarono nel Consiglio Generale, et Speciale, che i detti Serui fossero comprati dieci lire per ciascuno essendo di anni 14, et quei di manco lire otto... » (id., ib., pag. 191).

 

Pag. 1182, vv. 10 e segg.

Vedi Statuta Comm. Bon. 1, pag. 482 e prima e dopo. V'è in un d'essi un audiatur che ho tradotto come fosse audeat, ma credo stia bene come sta: « non si senta dire! »

 

Pag. 1182, v. 11.

Nel sigillo proprio degli Antiani et Consules era S. Petrus cum clavibus in manibus.

 

Pag. 1182, v. 21.

Nel Paradisus voluptatis (vedi più giù) è questa imagine evangelica: «ne massa tam naturalis libertatis, ulterius corrumpi possit fermento aliquo servitutis».

 

Pag. 1182, v. 22.

Bona omnia: antica, e, si capisce, arbitraria etimologia di Bononia.

 

Pag. 1182, vv. 28 e segg.

Ricca è la letteratura a questo soggetto della liberazione degli schiavi. Basti ricordare un dei primi, lo Zamboni con l'insigne opera, Gli Ezzelini, Dante e gli schiavi, e un degli ultimi, l'avv. Arturo Palmieri di cui ho letto con profitto un buono studio che è l'ultimo di lui ma non l'unico: Sul riscatto dei servi della gleba nel contado bolognese.

 

Pag. 1183, vv. 5 e segg.

Odofredo diceva: «Sclavos qui omnes bullantur in facie... tempore estus in meridie spoliasti servum et in equo ligneo ligatum posuisti ad sole», et forte unctum melle». In Atti Dep. Stor. Patr., Serie iii, vol. 12,  pag. 341: studio di N. Tamassia.

 

Pag. 1184, [VI] e segg.

Giovi ricordare, per alcuni tratti dell'arringa di Rolandino de' Passeggeri, alcuni della sua risposta a Federigo (vedi Frati, La prigionia del R. E., pag. 116): confidunt se potentia potius quam de iure (v. 75) ... nec semper poni... arcus (v. 73) ... ventosis verbis... non sumus arundines paludine que vento modico agitantur (v. 72 ; e cfr. La Canzone del Carroccio, pag. 1162, vv. 7 e 22, La Canzone dell'Olifante, pag. 1226, v. 13, in cui sono volute rendere le note di Dante in Par., iii, 119, Purg., in, 130)... tamquam creditur nostri iuris (v. 77)... Accingemus enim gladium super femur (v. 76) et rugitum dabimus (v. 74)... nec magnificentie vestre suffragiurn dabit innumerabilis multitudo (v. 75 e cfr. v. 77)...

E con Dio comincia anche quella celebre risposta: Exurgat Deus, et inimici sui penitus dissipentur.

Ma soprattutto si tenga presente il solenne proemio al registro degli schiavi liberati, il qual registro si chiamò Paradisus o, dal caso che ha questa parola iniziale, Paradisum voluptatis. Eccolo trascritto dalla Historia di Bologna del Ghirardacci, vol. 1, pag. 194, sotto l'anno 1257:

« Nella Camera de gli Atti di Bologna, vi è un libro intitolato Paradisum voluptatis dove si vede il numero dei servi liberati, et anco il nome di quei, che havevano li detti servi sotto il loro imperio, nel qual libro così si legge: "Paradisum voluptatis plantavit dominus Deus omnipotens a principio, in quo posuit hominem, quem formaverat, et ipsius corpus ornavit veste candenti, sibi donans perfectissimam et perpetuam libertatem. Sed illo miser, suae dignitatis et divini muneris immemor, pomum vetitum supra praeceptum Dominicum degustavit. Unde seipsum, et omnem suam posteritatem in hanc vallem miseriae traxit, et humanum genus enormiter tossicavit, alligans id miserabiliter nexibus diabolicae servitutis, et sic de incorruptibile factum est corruptibile; de immortali, mortale, subiacens alterationi, et gravissime servituti. Videns vero Deus quod totus mundus perierat, misertus est humano generi, et misit filium suum unigenitum natum de Virgine Maria, cooperante gratia Spiritus Sancti, ut gloria suae dignitatis diruptis vinculis servitutis, quibus tenebamur captivi, nos restitueret pristinae libertati. Et idcirco valde utiliter agitur, si homines quos ab initio natura liberos protulit, et creavit, et ius gentium servitutis iugo subposuit, restituantur manumissionis beneficio. Illi inquinati fuerunt libertati, cuius rei consideratione nobilis Civitas Bononiae, quae semper pro libertate pugnavit, praeteritorum memorans et futura providens in honorem nostri Redemptoris D. N. Jesv Christi nummario pretio redemit omnes quos in Civitate Bononiae, ac Episcopatu reperit servili conditione adstrictos, et liberos esse decrevit, inquisitione habita diligenti, statuens ne quis adstrictus aliqua servitute in Civitate, vel Episcopatu Bononiae deinceps audeat commorari, ne massa tam naturalis libertatis, quae redempta pretio, ulterius corrumpi possit fermento aliquo servitutis, cum modicum fermentum totam massam corrumpit, et consortium unius mali bonos plurimos dehonestet. Tempore in quo viri nobilis D. Accursij de Sorixina Bononiae Potestatis, fama, cuius omnium laudum longe, lateque diffusa irradiat, velut sydus, et sub examine D. Iacobi Grataceli eius Iudicis, et Assessoris, quem vir peritia, sapientia, constantia, et temperantia in omnibus recommendat, factum est memoriale praesens, quod proprio nomine debeat vocari merito Paradisus, continens Dominorum nomina Servorum, et etiam Ancillarum, ut liqueat, quibus Servis, et Ancillis est acquisita libertas et quo pretio, scilicet, decem libras pro maiore xiiii. annis Servo, et Ancilla, et octo libras Bonon. pro minore constituto cuilibet dominorum, pro quolibet, qui detinebatur astrictus vinculo servitutis. Scriptum est autem hoc Memoriale per me Corradinum Sclariti Notarium ad Servorum, et Ancillarum officium deputatum. Sitque nunc, et in posterum memoria omnium praedictorum ».

 

Pag. 1184, v. 9.

Vedi per questa e le altre leggende sul Paradiso deliziano il bel libro di Edoardo Coli, Il Paradiso terrestre dantesco (Firenze, 1897). E v'è bisogno di ricordare la Matelda dantesca, l'arte cantatrice e operatrice, contemplativa e attiva, la quale è il simbolo perfetto di ciò che deve essere, di ciò che sarà, il lavoro umano?

 

Pag. 1187, vv. 25 e segg.

Non fu in somma il Cattolicismo romano, che liberò gli schiavi e abolì la schiavitù, cioè ricondusse il Cristo in terra e adempì la redenzione.

 

Pag. 1189, v. 17.

Ricorda le magne parole di Virgilio a Dante:

Libero dritto sano è tuo arbitrio

e fallo fora non fare a suo senno:

perch'io te sopra te corono e mitrio,

cioè: « a te do l'impero di te, sì temporale e sì spirituale».

 

Pag. 1191, v. 6.

Matth., xxvi e xxvii

 

Pag. 1193, vv. 14 e segg.

Trasformazione solita nelle novelline e fiabe. Vedi, per es. Novelle Pop. Tosc. del Pitrè (Firenze, 1885, pag. 27, e al.).

 

Pag. 1193, v. 24.

È ora di chiarire questo «falconello». «Questo Henzio era somigliantissimo al padre, prode sin troppo, largo, attivo, cortese... Falconello fu detto Henzio, perché era pronto a tutto, agile di sua persona». Thom. Tusc., 515, citato nel Koenig Enzio di H. Blasius (Breslau, 1884).

 

Pag. 1194, v.  5.

Lucia da Viadàgola (nelle antiche carte Vidaliagla, da Vitaliacula). Ricorro al solito libro del Frati (La prig. del Re E., pag. 12 e segg.): «leggesi in una cronaca bolognese del secolo xv quest'aneddoto come segue: "Nota che il ditto Re se inamorò di una contadina da Viadagola che havea nome Lucia; la qual era la più bella giovine che si potesse vedere, e quando la ditta Lucia veniva in piazza il Re diceva: anima mia, ben ti voglio. Pietro Asinelli, che ogni giorno stava con lui, si adoperò e la fe' venire dal Re, et in somma se ingravidò e partorì un putto maschio et posele nome Bentivoglio. Del quale ne discese la nobil casa di Bentivoglio". Già fu osservato dal Sansovino e confermato dal Litta, dal Blasius e da altri, che questa leggenda non ha alcun fondamento di verità. Troviamo infatti che la famiglia Bentivoglio ha un'origine assai più antica...»

Sta bene, ma inventata di sana pianta la storiella non pare. Per compiacere ai Bentivoglio l'inventore avrebbe cercato e facilmente trovato qualcosa, a suo parere, di meglio che una bella contadina. E in fine Enzio ebbe pure in sua prigionia due figlie! Su che vedi il medesimo Frati, a pag. 36.

 

Pag. 1194, v. 8.

Nei libro, voleva dire Zuam, intitolato Paradisus voluptatis. Vedi nota a pag. 1184 e segg.

 

Pag. 1196, Vv. 10 e segg.

Vedi le rime di Enzio, e altrove e nel libro così spesso citato del Frati.

 

Pag. 1197, v. I e al.

Eya! grido di sentinelle è nel canto dei soldati di Modena:

Resultet echo, comes: eja vigila!

Per muros, eja, dicat echo, vigila!

Ed è in una ballata provenzale (Bartsch, Chrest. Prov., iii) :

A l'entrada del tems clar, eya,

per joja recomençar, eya,

e per jelos irritar, eya,

e va dicendo: ed è esclamazione di gioia e risveglio.

 

Pag. 1197,  v. 3.

È un verso tradotto da quello che Rolandino citò nella risposta a Federigo:

a cane non magno saepe tenetur aper;

e lo tradusse appunto (vedi Cantilene del Card., pag. 328) il bolognese cronista Matteo de' Griffoni, che fu anche a suo modo poeta: a un cotal modo gnomico.

 

Pagg. 1199 e segg.

In questa quasi albata o alba del re e della schiava sono alcune note di altre «albe». Giova specialmente ricordare quella trovata in un Memoriale bolognese, edita al solito dal Carducci e dal Casini, e poi dal Monaci (Op. cit., 292) in lezione più fedele. Eccone alcuni versi:

Partite, amore; adeo;

che tropo çe se' stato,

lo maitino è sonato,

çorno me par che sia.

Partite, amore; adeo;

che non fossi trovato

in sì fina cellata

como nui semo stati:

or me bassa, oclo meo

tosto sia l'andata

.    .    .    .    .    .    .

Partite, amore; adeo;

e vane tostamente

 

 

LA CANZONE DELL'OLIFANTE

 

I

 

Il 26 di febbraio del 1266, che fu un venerdì (il venerdì sezzaio del mese) il re Enzio (Hentius, Hencius, Henricus, Enzo), dalla sua aula nel palagio nuovo del Comune, ascolta da un cantore popolare, forse della Marca Tarvisina, una canzone di gesta, la canzone, appunto, di Rolando.

Non domandate se è vero. Non so se sia, nego che non sia.

In vero in una provvigione del 1288 s'ingiunge ut cantatores Frangicinorum in plateis Communis ad cantandum... omnino morari non possint. Certamente siffatti cantatori c'erano anche prima di quell'anno, e poi s'erano moltiplicati, ed erano diventati noiosi. Donde il divieto, che ha riscontro in quello de' nostri anni contro gli organetti che nel centro della città omnino morari non possint, e affliggono soltanto quelli del cerchio. Ma questi cantores Francigenarum (così si emenda l'espressione) cantavano propriamente chansons de geste? Così intese Giosue Carducci: «I canti delle geste di Francia dalla severa piazza pare che salissero a disturbare in palazzo gli anziani del popolo, che li vietavano» (Lo studio di B., vii). E così deve intendersi, ché francigenae è parola che contiene l'idea di «discendenza», «schiatta», e geste significa «famiglia epica» nella quale primeggia un eroe celebrato, esso e ascendenti e discendenti, in più canzoni o poemi. In tal modo si formano cicli, i quali, secondo il poeta del girars de viane, sono tre.

N' ot ke III gestes en France la garnie:

dou roi de France est la plus seignorie

.     .     .     .     .    .    .     .     .     .     .

Cioè quella di Carlomagno.

Et l'autre apres (bien est drois que je die)

est de Doon a la barbe florie,

cel de Maiance...

Cioè quella, come dicono i nostri, di Dodone di Maganza; gesta o schiatta, come dice un commentatore di Dante, «e quali sono grandi gentili uomini ma sono traditori e so' stati sempre ».

La tierce geste, ke moult fist a proiser,

fu de Garin de Monglaine le fier...

Cioè quella, come meglio crede Leone Gautier, di Guglielmo d'Orange. Renaud (Rinaldo) e gli altri figli d'Aimone sarebbero il centro della seconda gesta.

E a queste si aggiungono altre geste, da questi si svolgono altri cicli: quelle e quelli di Aubri le Bourguignon, di Girart de Roussillon, di Elie de Saint Gilles, d'Amis et Amile e di Beuves d'Hanstonne (Buovo d'Antona).

Così L. Gautier in Les Épopées Françaises, 2a 1, 123 e segg. E vedi a pag. 410 la classificazione generale delle canzoni di gesta, da lui proposta.

Delle quali canzoni molte furono cantate, trascritte, rabberciate in Lombardia e Venezia e in gran parte dell'Italia settentrionale. Su che vedi il medesimo L. Gautier, a pag. 268 del i e 345-396 del ii. Che di esse poi fosse quella di Rolando, è più che certo. Celebre è il Roland, in francese italianizzato, del ms. fr. iv di Venezia. In verità «il nome e la leggenda di Rolando sono popolari in Italia, secondo ogni probabilità dal secolo xi; e per certo, come attestano l'iscrizione di Nepi nel 1131 e le statue di Verona (di Oliviero e Rolando), dal xii». L. Gaut. ii, p. 313. E che si cantasse sovente proprio forse il passo che io ho tradotto o, meglio, ridotto, s'induce dalla Chronica maior di Galvano Fiamma: sicut nunc in foro cantantur (ystoriae) de Rolando et Oliverio.

Che Enzio infine si potesse dilettare di ascoltare tali ioculatores e cantatores, è forse indizio nel suo testamento in cui sono ricordati i suoi libri Romantiorum. I quali possono essere stati romanzi in prosa, ma non è proibito credere fossero libretti contenenti chansons de geste, ché così pur elle si chiamano. Per esempio, dice un ioculator (citato in Gautier, II, p. 19):

Moi je la sçay des le commencement

iusqu' a la fin: car j'en ai le rommant.

E ben noto è le Roman d'Alexandre, che è pure una canzone. E il Du-cange (mi avverte A. Sorbelli) traduce cantatores Frangicinorum con chanteurs de Romans. Vedi poi nella iii parte delle note.

Le lasse, che si leggono nella mia canzone, sono non sempre tradotte, ma sempre imitate da laisses della Chanson de Roland. Io ho imaginato che il cantator avesse pochi scrupoli, non so se anche poco buon gusto. Del suo incerto italiano vuol essere indizio e saggio la parola «olifante» per «corno d'avorio», il corno che, come l'antica buccina del console, dava i comandi generali ed era segno canoro dell'imperium.

Il lettore può confrontare, nell'edizione scolastica del Gautier. Alle prime tre lasse de la vedetta corrispondono le lxxxvi, 'vii, 'viii; alle seconde tre di il consiglio le lxxxix, xc, 'i e ii; alle terze tre frammentarie de lo stormo alcuni versi della xcv, 'vi, 'vii, 'viii; alle tre del la mischia altri versi qua e là tra la cxv e la cxxii; alle tre di il contrasto le cli, 'ii, 'iii, 'iv; alle tre del l'accordo la clv; alle tre del l'olifante le clvii-clix. Nell'ultimo canto il sacro impero tutta un'eco del mirabile poema medievale. E se io ho potuto dar un'idea, un sentore, un'aura, a chi prima non lo conosceva, della grandezza epica di tutto il poema, e specialmente dell'episodio dell'olifante dei tre squilli più alti più forti più grandi dei tre gridi del Pelide —, son pago e contento.

Felice poi sarei se il lettore intuisse ciò che al poeta non è riuscito esprimere, il tragico del grido Moljoie che a Roncisvalle è enseigne imperiale, e al Prato delle rose, antimperiale, e della croce che poi si volse contro l'aquila, e della benedizione sostituita dalla scomunica. E la catastrofe della grande tragedia che ha secoli per episodi, e per soggetto la lotta dell'impero e della chiesa, cioè dei due imperi, politico e ieratico.

 

II

 

Leggiamo nella Cronica di Giovanni Villani (Firenze, 1845), prima della cometa, poi della battaglia. Gioverà, penso, meglio che miei versi.

 

«Negli anni di Cristo 1264, nel mese d'agosto, apparve in cielo una stella cometa con grandi raggi e chioma dietro, che levandosi dall'oriente con grande luce infino ch'era al mezzo il ciclo, inverso l'occidente, la sua chioma risplendea, e durò tre mesi: ciò fu infino del mese di novembre. E la detta stella comata significò diverse novitadi in più parti del secolo, e molti dissono che apertamente significò la venuta del re Carlo di Francia, e la mutazione che seguì l'anno appresso del regno di Cicilia e di Puglia, il quale si trasmutò, per la sconfitta e morte del re Manfredi, dalla signoria de' Tedeschi a quella de' Franceschi; e simigliante molte mutazioni e traslazioni di parti, per cagione di quella del Regno, avvennero a più città di Toscana e di Lombardia...» (VI xcii).

«Il conte Guido di Monfurte colla cavalleria che 'l conte Carlo gli lasciò a guidare, e colla contessa moglie del detto Carlo, e co' suoi cavalieri si partirono di Francia del mese di giugno del detto anno (1265)...

E poi gli scorsono (gli usciti guelfi di Firenze e di Toscana) e condussono per Lombardia a Bologna, e per Romagna, e per la Marca, e per lo Ducato, che per Toscana non poterono passare, perocché tutta era a parte ghibellina e alla signoria di Manfredi, per la qual cosa misero molto tempo in loro viaggio, sicché prima fu l'entrante del mese di dicembre, del detto anno 1265, che giugnessono a Roma; e giunti loro alla città di Roma, il conte Carlo fu molto allegro, e gli ricevette a grande festa e onore» (VII iv).

«...Lo re Carlo... giunse all'ora di mezzogiorno appiè di Benivento, alla valle d'incontro alla città per ispazio di lungi di due miglia alla riva del fiume di Calore, che corre appiè di Benivento. Lo re Manfredi veggendo apparire l'oste del re Carlo, avuto suo consiglio, prese partito del combattere e d'uscire fuori a campo con sua cavalleria, per assalire la gente del re Carlo anzi che si riposassono; ma in ciò prese mal partito, che se fosse atteso uno o due giorni, lo re Carlo e sua oste erano morti e presi sanza colpo di spada, per diffalta di vivanda per loro e per gli loro cavalli, che 'l giorno dinanzi elle giugnessono appiè di Benivento, per necessità di vittuaglia, molti di sua oste convenne vivesse di cavoli, e' loro cavalli di torsi, senza altro pane, o biada per li cavalli, e la moneta per dispendere era loro fallita. Ancora era la gente e forza del re Manfredi molto sparta, che messer Currado d'Antioccia era in Abruzzi con gente, il conte Federigo era in Calavria, il conte di Ventimiglia era in Cicilia; che se avesse alquanto atteso crescevano le sue forze; ma a cui Iddio vuole male, gli toglie il senno. Manfredi uscito di Benivento con sua gente, passò il ponte ch'è sopra il detto fiume di Calore, nel piano ove si dice santa Maria della Grandella, il luogo detto la pietra (prato) a Roseto...» (VII vii).

« Lo re Carlo veggendo Manfredi e sua gente venuti a campo per combattere, ebbe suo consiglio di prendere la battaglia il giorno o d'indugiarla. Gli più de' suoi baroni consigliarono del soggiorno infino alla mattina vegnente, per riposare i cavalli dell'affanno avuto per lo forte cammino, e messer Gilio il Bruno conestabile di Francia disse il contradio, e che indugiando, i nimici prenderanno cuore e ardire, e a loro potea al tutto fallire la vivanda, e che se altri dell'oste non la volesse la battaglia, egli solo col suo signore Ruberto di Fiandra e con sua gente, si metterebbe alla ventura del combattere, avendo fidanza in Dio d'avere la vittoria contro a' nemici di santa Chiesa. Veggendo ciò il re Carlo, s'attenne e prese il suo consiglio e per la grande volontà ch'avea del combattere, disse con alta voce a' suoi cavalieri: Venu est le jour que nous avons tant desiré...» (VII viii).

«Ordinate le schiere de' due re nel piano della Grandella per lo modo detto dinanzi, e ciascuno de' detti signori ammonita la sua gente di ben fare e dato il nome per lo re Carlo a' suoi, Mongioia cavalieri e per lo re Manfredi, Soavia cavalieri; il vescovo d'Alzurro, siccome legato dal papa, assolvette e benedisse tutti quelli dell'oste del re Carlo, perdonando colpa e pena, perocch'essi combatteano in servigio di santa Chiesa. E ciò fatto, si cominciò l'aspra battaglia tra le prime due schiere de' Tedeschi, e de' Franceschi, e fu sì forte l'assalto de' Tedeschi, che malamente menavano la schiera de' Franceschi, e assai gli feciono rinculare addietro e presono campo...

Subitamente si levò uno grande grido tra le schiere de' Franceschi, chi che '1 si cominciasse, dicendo: agli stocchi, agli stocchi, a fedire i cavalli; e così fu fatto, per la qual cosa in piccola d'ora i Tedeschi furono molto malmenati e molto abbattuti, e quasi in isconfitta volti. Lo re Manfredi lo quale con sua schiera de' Pugliesi stava al soccorso dell'oste, veggendo gli suoi che non potcano durare la battaglia, sì confortò la sua gente della sua schiera, che 'l seguissono alla battaglia, da' quali fu male inteso, perocché la maggior parte de' baroni Pugliesi, e del Regno, in fra gli altri il conte Camarlingo, e quello della Cerra, e quello di Caserta e altri, o per viltà di cuore, o veggendo a loro avere il peggiore, e chi disse per tradimento, come genti infedeli e vaghi di nuovo signore, sì fallirono a Manfredi, abbandonandolo e fuggendosi chi verso Abruzzi e chi verso la città di Benivento. Manfredi rimaso con pochi, fece come valente signore, ché innanzi volle in battaglia morire re, che fuggire con vergogna: e mettendosi l'elmo, una aquila d'argento ch'egli avea ivi su per cimiera, gli cadde in su l'arcione dinanzi: e egli ciò veggendo isbigottì molto, e disse a' baroni che gli erano dal lato in latino: hoc est signum Dei, perocché questa cimiera appiccai io colle mie mani in tal modo, che non dovea potere cadere; ma però non lasciò, ma come valente signore prese cuore, e incontanente si mise alla battaglia, non con soprasegne reali per non essere conosciuto per lo re, ma come un altro barone, lui fedendo francamente nel mezzo della battaglia, ma però i suoi poco duraro, che già erano in volta: incontanente furono sconfitti, e lo re Manfredi morto in mezzo de' nemici: dissesi per uno scudiero francesco, ma non si seppe il certo...

Nella sua fine, di Manfredi si cercò più di tre giorni, che non si ritrovava, e non si sapea se fosse morto o preso, o scampato, perché non aveva avuto alla battaglia in dosso armi reali; alla fine per uno ribaldo di sua gente fu riconosciuto per più insegne di sua persona in mezzo il campo ove fu la battaglia; e trovato il suo corpo per lo detto ribaldo, il mise traverso in su uno asino veggendo gridando: chi accatta Manfredi, chi accatta Manfredi: quale ribaldo da uno barone del re fu battuto, e recato il corpo di Manfredi dinanzi al re, fece venire tutti i baroni ch'erano presi, e domandato ciascuno s'egli era Manfredi, tutti timorosamente dissono di sì. Quando venne il conte Giordano sì si diede delle mani nel volto piangendo e gridando: omè, omè, signor mio: onde molto ne fu commendato da' Franceschi, e per alquanti de' baroni del re fu pregato che gli facesse fare onore alla sepultura. Rispose il re: je le fairois volontiers, s'il ne fût excommunie; imperocch'era scomunicato, non volle il re Carlo che fosse recato in luogo sacro ma appie' del ponte di Benivento fu seppellito, e sopra la sua fossa per ciascuno dell'oste gittata una pietra onde si fece grande mora di sassi. Ma per alcuni si disse poi che per mandato del papa, il vescovo di Cosenza il trasse da quella sepoltura e mandollo fuori del Regno ch'era terra di Chiesa e fu sepolto lungo il fiume del Verde a' confini del Regno e di Campagna: questo però non affermiamo. Questa battaglia e sconfitta fu uno venerdì, il sezzaio (intendi venerdì) di febbraio gli anni di Cristo 1265» (secondo lo stile fiorentino, ma 1266 secondo lo stile comune) (VII ix).

 

III

 

Pag. 1205, v. 3.

«La primavera precoce di quell'anno aveva prosciugato le strade, e perciò agevolò la marcia di Carlo attraverso la Val di Sacco». Gregorovius, Roma nel M. E. (Roma, 1901) iii, p. 6.

 

Pag. 1205, v. 5.

«Et eodem anno (1264) aparuit in celo una stella longa, habens caudom longham per unam vel duas perticas, que videbatur quasi fumus» . Chron. Parm. in R. I. S. ix. Parte ix, p. 22.

 

Pag. 1205, v. 13.

«In Bologna è rimasta memoria determinata di centottanta torri, e più altre ve ne dovettero essere. Sì gran copia, qui e altrove, sorgeva tutta, o quasi, nella parte vetusta e ristretta della città (in Bologna solo tre o quattro torri e non accertate eran fuori dell'intera cinta) onde gli spazi intermedii eran brevi e talvolta minimi». Gozzadini, Delle torri gentilizie. Bologna, Zanichelli, 1880, p. 10.

 

Pag. 1205, v. 23.

Soave per Schwaben è, si sa bene, in Dante: Par. iii, 119, e Con. iv, 3. Il terzo vento di Soave, o Federigo di Soave, è detto da Dante, e qui e là, «l'ultima possanza» e «l'ultimo imperadore dei Romani». Che egli pensasse anche, e con dubbioso rammarico, alla predizione corrente («In ipso quoque finietur imperium, quia, etsi successores sibi fuerint, imperiali tamen vocabulo et romano fastigio privabuntur» Salimb. a. 1250; p. 167 dell'ed. Fiaccadori di Parma) che dopo Federigo II non ci sarebbe altro imperatore?

 

Pag. 1205, v. 23.

I leoni erano nell'arma di Svevia.

 

Pag. 1205, v. 24.

«Die VIII Ianuarij MCCLII. In reformatione Conscilii facto partito placuit toto Conscilio quod ad custodiam d. Entii Regis... debeant stare XVI custodes tantum... omnes debeant esse aetatis XXX annorum, vel maioris... »

In uno statuto del 1261 è che la guardia ha da esser fatta «per bonos homines et civiles et legales». E fu diminuito a 25 anni il limite dell'età. Vedi il bel libro di Lodovico Frati: La prigionia del Re Enzio a B., Bologna, Zanichelli, 1902.

 

Pag. 1206, v. 2.

Il giullare poteva essere della gioiosa Marca, come s'è detto più su? Forse no, perché il Comune e gli uomini di Trivigi, coi loro collegati, erano al bando del Comune di Bologna per la uccisione d'un bolognese nello scempio di Alberico da Romano. Vedi Statuta Comm. Bon. 1, 379.

 

Pag. 1207, v. 2.

Qui e altrove è l'eco delle due canzoni e del sonetto attribuiti al re prigioniero. Vedili in Frati, p. 143-148.

E uanne in pugla piana

Lamagna, capitana,

là doue lo mio core è nott'e dia.

1, 58 e segg.

 

Pag. 1207, v. 4.

Albano Sorbelli mi permette di divulgare più esattamente questa (non statuto) provvigione del 1288, la quale è variamente trascritta, denominata, intesa e interpretata. «Il frammento che a noi importa, della Provvigione, fu pubblicato la prima volta dal Ghirardacci: Historia, Vol. I, i, ix, p. 279». Ed è questo (riporto prima la conclusione): «Quod lusores Azardi, et Bescazariae, et Incisores casei (venditori di cacio, a pezzi: ce n'è ancora per Bologna) in ipsis scalis, et in platea Communis per decem perticas, nec etiam Cantatores Frangicinorum in plateis Communis ad cantandum, nec in circumstantijs plateae, et Palatij Communis omnino morari non possint, nec debeant, et quod D. Potestas saepe, et saepius inquirere teneatur capi facere quos invenerit talia operati, et teneatur etiam ipsos fustigati per Civitatem Bononiae, quod si propter fustigationem huiusmodi se non correxerint, ad ampliorem poenam procedat; ita quod talia de cetero non possent evenire, etc. ». Poveri cantatores così mal mescolati sempre! Nell'antichità greca coi mendicanti, nell'antichità di mezzo con gl'incisores casei e i lusores bescazariae!

E perché tal provvigione? Non proprio per la ragione sospettata dal Carducci; ma perché i giocatori a zara e i venditori di formaggio a pezzi (qui sono esclusi i cantatores), quando montano in collera, bestemmiano Dio e la Madre; quod est valde detestabile, et horrendum; e perché in causa del loro chiasso vengono molti impedimenti ai Predicatori, che nella piazza stessa annunziano la parola di Dio. Ecco la vera ragione.

 

Pag. 1207, vv. 8 e segg.

Teil sepolture n'aura mais rois en terre:

il ne gist mie, ainçois i siet acertes,

sur ses genolz l'espee an son poin destre,

encor menace la pute gent averse...

Versi del Couronnement Looys, citati in Gautier, Épopées, 1, p. 60.

 

Pag. 1207, v. 12.

Io non credo che Enzio fosse derelictus da Manfredi come afferma un cronista: «mortuo patre et fratre Corrado, sic a Manfredo est derelictus... » Thom. Tusci Gesta Imp. et Pont. in Mon. G. H. (xxii 515). Io adoro una sola e piccola e pur viva traccia del cuore che Manfredi ebbe verso il suo prode e sventurato fratello di sangue. Manfredi da Elena ebbe tre figli maschi: Enrico, Federico ed... Enzo! Perché mettere al più piccino de' suoi figli questo nome? E si consideri che doveva parere un duplicato al nome del primo, di Enrico! A me pare che Manfredi quel nome lo ponesse, perché la vista del figlio gli ricordasse il fratello prigioniero. Ahimè! il nome gli portò male. Anche Enzo di Manfredi morì in prigione, e dura prigione, prigione di re, non di popolo! Manfredi fu accusato d'avere ucciso o voluto uccidere padre, fratello, nepote: e Manfredi fu, invece, pio come non erano allora per solito gli uomini e in ispecie i principi.

 

Pag. 1208, v. 2.

Assomigliava, se pure non era quel desso, uno d'Ezzelino. Ché la Marca vide in corte di lui molti astrologi magnificamente onorati, tra i quali «etiam Saracenum cum barba prolixa, qui de Baldac venit, a remotis videlicet finibus Orientis, qui tam origine quam aspectu et actu alter Balaamariolus merito videbaturChron. Est., in R. I. S., xv, Parte iii, p. 37.

 

Pag. 1210.

«Stormo» corrisponde al fr. ant. estors o esturs (da Sturm) ed è usato nei nostri cronisti, per assalto o a dirittura per battaglia. Vedi ad es. Chron. Parm., p. 8, per tacer di Dante: Inf. xxii, 2.

 

Pag. 1210, v. 2.

È Turpins de Reins, Turpins li arcevesques.

 

Pag. 1210, v. 4.

A pruovo: ad prope? Presso sé. Inf. xii, 93.

 

Pag. 1210, v. 15.

Alzurro è Auxerre.

 

Pag. 1210, v. 20.

Quei tra le fiamme e voi tra i santi fiori! Così Carlo d'Angiò, in Villani, vii, v, avrebbe detto di Manfredi: aujourdhui je mettrai lui en enfer, ou il mettra moi en paradis.

 

Pag. 1211, v. 23 e pag. 1212 v. 6.

Chans. de R., 1093:

Rollanz est pruz e Oliviers est sages.

 

Pag. 1212, v. 8.

Cfr. Inf xxxi, 73 e seg.

Cercati al collo e troverai la soga

che il tien legato (il corno).

 

Pag. 1213, v. i.

Sonetto attribuito a Re Enzio, v. 1.

 

Pag. 1213, v. 2.

Enzio era marito di Adelasia regina di Torres, titolata: dei gratia regina turritana et gallurensis; ond'egli «portò legittimamente il titolo di rex Turrium et Gallure, col quale già nell'aprile 1236 era designato negli atti dell'imperatore Federigo II». Da uno scritto Il titolo regale di Enzo di Arrigo Solmi nella bella Miscellanea Tassoniana dal baldo e bravo Formiggini offerta agli studiosi.

 

Pag. 1213, v. 5.

Vedi nota dell'ed. Gaut. della Chans. de R. al v. 3093.

 

Pag. 1213, v. 17.

Vedi nota a pag. 1222, v. 5.

 

Pag. 1213, v. 19.

Fu la battaglia del 27 novembre 1237, nella quale gl'imperiali s'impadronirono del Carroccio milanese, lasciato disarmato e disadorno nella ritirata.

 

Pag. 1213, v. 26.

Da un nobile scritto Re Enzio a piede libero?, nella ricordata Miscellanea, col quale P. C. Falletti con sicuro intuito di storico e di poeta riconferma e di molto accresce le lodi di gentilezza al Comune di Bologna, traggo: «(Il Governo) spesò (il re Enzio) giornalmente di una bandigione; una torta fatta delle cose che egli appetiva!... et omnia que comedere desiderabat in turta ponebantur».

E per altre circostanze, memorate nei miei versi, vedi tutto questo scritto, bello di tutta la poesia della verità, e il libro cit. di L. Frati, e di Alfonso Rubbiani Il Palazzo di re Enzo e articoli vecchi e nuovi sul Resto del Carlino, i quali egli farà bene a raccogliere.

 

Pag. 1216, v. 6.

Enzio fu preso e disarmato da Lambertino Lambertini, Michel degli Orsi e Lambertolo Bottrigari.

 

Pag. 1216, vv. 10 e segg.

Del sonetto attribuito ad Enzio, vv. 9 e 11.

 

Pag. 1216, vv. 13 e segg.

Della n canzone: v. 25 e segg., 29 e segg.

Nanti mi si rinfresca

pena...

Eco pena dolgliosa,

che nel mio core abonda.

 

Pag. 1219, v. 5.

Teobaldo degli Anibaldi era un prode Romano, amico sino alla morte di re Manfredi.

 

Pag. 1219, v. 6.

Il Despoto d'Epiro Micalicio Comneno, padre di Elena moglie di Manfredi.

 

Pag. 1219, v. 18.

... dove fu bugiardo

ciascun Pugliese...

INF. XXVIII, 16 e seg.

 

Pag. 1220, v. 3.

Dell'arcivescovo Turpino dice appunto la Chanson de Roland (v. 2255 e segg.);

 

Dès les Apostles ne fut mais tels prophete

pur lei tenir e pur humes atraire.

 

Pag. 1220, v. 4.

Chans. de R., v. 2238:

C'est l'Arcevesques, que Deus mist en sun num.

 

Pag. 1220, vv. 24 e segg.

Tutti ricordano ciò che in Dante dice Manfredi:

L'ossa del corpo mio sarieno ancora

in co' del ponte presso a Benevento,

sotto la guardia della grave mora.

 

Or le bagna la pioggia e move il vento...

purg., iii, 127 e segg.

 

Pag. 1221, v. 12, e cfr. pag. 1224, v. 16 e 1222 v. 22.

Iacopo di Dante commenta al verso 17, Inf., xxxi: «La sua giesta cioè de' Paladini nella battaglia di Santa Maria di Valle Rossa». O non si direbbe che egli fondesse la battaglia di Roncisvalle con quella di Santa Maria della Grandella?

 

Pag. 1222, v. 3.

Buoso, quel da Duera o di Dovara (Inf. xxxii, 115 e segg.), fu prigione alla Fossalta con Enzio ma liberato nel 1251 a istanza di Papa Innocenzio. « mccli... Papa Innocentius... intravit civitatem Bononiae... Et eius precibus Bosius de Doaria, qui erat de carceratis cum rege Hentio, fuit de carceribus relassatus et per commune Bononiae liberatus». (Matth. de Griffonibus, Mem. Hist., R. I. S. xviii, Part. II, pag. 12). Era profeta Papa Innocenzo? Sapeva, quindici anni prima, che quel Ghibellino avrebbe tradito in Manfredi la parte dell'impero, e fatta trionfare, con Carlo d'Angiò, quella della chiesa?

Ed Enzio si trovò spesso con Ezzelino, e anche contro i bolognesi: nel 1247, due anni prima della battaglia del Ponte di S. Ambrogio, quando i Bolognesi assediarono e distrussero il castel di Bassano: rex Henricus et Ycillinus de Romano erant in auxilium Mutinensium. Griffoni, ad. a. MCCXLVII.

 

Pag. 1222, v. 4.

Così nella ii delle canzoni a lui attribuite (vv. 33 e seg.)

Non ho giorno di posa

come nel mare l'onda.

 

Pag. 1222, v. 5.

Il 3 maggio 1241 presso alle isole di Montecristo e del Giglio fu combattuta la battaglia detta della Meloria, nella quale le galee di Genova, cariche dei vescovi che andavano al concilio, furono rotte dall'armata imperiale di galee Pisane e Siciliane, di cui era a capo re Enzio.

 

Pag. 1222, v. 6.

Nella sua prima « cansonetta » (vv. 52 C seg.):

Quelli che m'a 'n bailia

si distretto mi tene...

 

Pag. 1222, v. 22.

« Sembra potersi ammettere che altrove (che in Castelfranco) fosse custodito Enzo negli altri sei giorni (dal 17) fino al 24 agosto, e forse, come scrissero alcuni cronisti, stette in Unzola (o come ora dicesi Anzola), castello allora fortificato, e distante egualmente da Castelfranco e da Bologna». Lod. Frati, La prig. del Re Enzo, pag. 5.

 

Pag. 1224, v. I.

« ... statuimus et ordinamus... quod ad certum sonum campane ordinatum a Potestate et Antianis et Consilibus debeat dictus Rex Hentius.... in Camera palatii ubi tenetur claudi, confirmari et serari per unum ex militibus sine judicibus Potestatis Bon.». Statuta Comm. Bon. III, 334.

 

Pag. 1224, v. 2.

« A Bologna si suonava ad sogam cioè a martello a tocchi staccati ». A. Lattes, La campana serale, in Bibl. stor. crit., Zanichelli, ix-x, p. 166. E leggi tutto il dottissimo studio.

 

Pag. 1224, v. 7.

Guaita noctis in Stat. Comm. Bon. iii, 231: guardia notturna. E in iii, 558, puoi leggere il divieto sì per gli scolares e sì per alii homines, di andar di notte, sì avanti sì dopo il suon della campana, sì col lume e sì senza, con lenti, viole e altri istrumenti.

 

Pag. 1224, v. 8.

I fratti godenti e bolognesi Loderingo e Catalano, ne' loro statuti ed ordinamenti per il buono e pacifico stato della città di Bologna e distretto, avevano da poco, ossia dall'anno prima, rinfrescata la memoria di questo divieto:

«Quod nullus post tertium sonum campane comunis (vadat) per civitatem vel burgos sine lumine.

Item statuimus ordinamus atque precipimus quod nullus Civis vel forensi vadat per civitatem bonon. aut burgos post tertium sonum campane Communi. bonon. sine lumine, cum armis vel sine armis... Et nullus tabernarius vel alius qui vendat vinum in caneva debeat modo aliquo vel ingenio tenere post tertium sonum campane in eorum canevis vel tabernis aliquam personam...» (Stat. Comm. Bon. iii, p. 613).

Il terzo suono della campana io intendo la terza serie dei tocchi.

 

Pag. 1224, v. 16.

Vedi nota a pag. 1221, v. 12.

 

Pag. 1224, vv. 23 e segg.

In Gaut., Epop., i, pag. 59:

A feire tost mes venjances venut est la vigilie;

qui m'ont meffet non dorment: qe Karlons se reville.

 

Pag. 1225, v. 12.

L'églantier è spesso ricordato nella Chanson.

 

Pag. 1225, v. 19.

Il commentatore anonimo di Dante, edito dal Selmi, ha (Inf., xxxi, 16 e segg.) : « a ciascuno Cristiano si trovò nato nella bocca un giglio ».

 

Pag. 1225, v. 28.

Chans. de R., v. 3094 e seg.:

Si aveit num Romaine

mais de Munjoie iloec out pris escange.

 

Pag. 1226, v. 4.

Chans. de R., v. 2452:

As li un Angle ki od lui soelt parler...

ib. 2526 e seg.:

Saint Gabriel li ad Deus enveiet...

Li angles est tute noit ei sun chief.

 

nota

________________________________

 

 

[1] Questa nota era nella prima edizione avanti le note a La Canzone dell'Olifante che fu la prima ad essere pubblicata. Nel presente volume, ove le canzoni pigliano il loro posto, viene trasportata avanti le note di tutte e tre le canzoni, sebbene abbia qualcosa che riguarda in particolare La Canzone dell'Olifante. Nel senso generale però si riferisce a tutte. L'ordine che l'autore si era prefisso di seguire era quello storico. Così: prima, La Canzone del Carroccio; seconda, La Canzone del Paradiso; terza, La Canzone dell'Olifante; quarta sarebbe venuta La Canzone dello Studio; quinta, La Canzone del Cuor gentile. Il ciclo doveva conchiudere con un soave epilogo, Biancofiore. Ma di queste ultime non ci sono se non molti preparativi per il lavoro e i primi dieci versi della quarta:

 

LA CANZONE DELLO STUDIO — I. IL SUCCESSORE

Giunge Rodolfo conte d'Habesburgo,

nel verde aprile, per la via di Roma.

Piccolo il capo, e lunga la persona,

occhi cilestri, e viso scialbo e tristo.

Nella gran torre fissa tristo gli occhi.

Tra gli occhi un lungo becco di grifone.

Elmo non porta, non usbergo e scudo,

non lancia e spada, ed è vestito a grigio.

Cavalca al passo un vecchio mulo stanco.

        Il vespro è bello e chiaro il sole.

 

 

 

Indice Biblioteca Progetto Giovanni Pascoli

© 1996 - Tutti i diritti sono riservati

Biblioteca dei Classici italiani di Giuseppe Bonghi

Ultimo aggiornamento: 15 luglio 2005

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