Web Analytics Made Easy - Statcounter
Privacy Policy Cookie Policy Terms and Conditions Giovanni Pascoli, Letteratura italiana o italo-europea?

Giovanni Pascoli

Letteratura italiana o italo-europea?

Edizione di riferimento

Giovanni Pascoli, Poesie e prose scelte, Progetto editoriale, introduzioni e commento di Cesare Garboli, 2 tomi, collaboratori Giuseppe Lonelli, Anthony Oldcorn, Filippomaria Pontani, I Meridiani, Arnoldo Mondadori editore, Milano 2002

Letteratura italiana o italo-europea?

1897

«La Vita italiana», 1° maggio 1897; ristampato dal Petrocchi in «Archiginnasio», I, pp. 45-55. È l’articolo col quale il Pascoli intervenne nella polemica cosiddetta delle “mosche cocchiere”, dal titolo di un famoso scritto polemico del Carducci. Ecco gli antefatti. Il 15 febbraio 1896 apparve sulla «Revue de Paris» un articolo di Ugo Ojetti, Quelques littérateurs italiens, ispirato a quel tipo di giornalismo ’resocontista’, allora nascente, che sotto il pretesto dell’informazione ambiva al saggismo di tono culturale e all’intelligenza critica e polemica dei fatti letterari. L’Ojetti si faceva portatore del ricorrente luogo comune per il quale non si può riconoscere in Italia una ’letteratura italiana’, ma solo identificare singole fisionomie di scrittori e letterati eterogenei (e prendeva a campione, illustrandole, “quatre ou cinq sommités”: Carducci, d’Annunzio, Fogazzaro, Verga, Serao). Il vuoto nazionale e sociale della letteratura italiana era motivato, naturalmente, con la mancanza di lingua nazionale, e fra l’altro con un argomento malamente rubato all’Ascoli del Proemio all’«Archivio glottologico italiano» (senza citare la fonte), cioè il vuoto di un centro letterario metropolitano che, come Parigi per la Francia, assorbisse le sparse energie intellettuali fiorenti in vicine o lontane province. Acido verso il Carducci, perfidamente scusato (e quindi accusato) di non avere mai rischiato la pelle sui campi di battaglia risorgimentali per il fatto di “avere famiglia”, l’Ojetti concludeva auspicando non una letteratura italiana ma una letteratura europea; e gli stessi argomenti, ampliandoli e deteriorandoli col richiamo a un’introvabile “anima italiana” e a una generica connotazione “moderna” della letteratura, l’Ojetti li riprendeva in un’impettita conferenza veneziana, pubblicata poi sulla «Vita italiana» del 10 giugno 1896 col titolo L’avvenire della letteratura in Italia. Un anno passò prima che il Carducci, direttamente chiamato in causa, rispondesse con un articolo, Mosche cocchiere, sulla «Vita italiana» del 16 marzo 1897, scritto con l’aria di chi lascia cadere un fazzoletto usato nella cesta dei panni sporchi: “tali geremiadi” spiegava “sono antiche da quanto gli autori di commedie fischiate o di romanzi non letti”, e aggiungeva: “Letteratura europea: si fa presto a dire, ma che cosa vuol dire?”. A infastidire il Carducci non erano tanto gli argomenti addotti dall’Ojetti, quanto il tono di spigliata ambiguità usato nell’esporli, da informatore che traduce e sol-leva a livello intellettuale la notizia fatua o il pensiero meschino: tono che sta a capo, tuttavia, grazie proprio all’Ojetti, della tradizione poi fiorente del giornalismo letterario e intellettuale italiano dei Longanesi e dei Pannunzio fino ai deprimenti e innumerevoli loro discepoli. Se ai due articoli dell’Ojetti è da imputare la superficialità e il gusto mondano del chiasso per il chiasso, mascherato da finalità professionali, lo stile bellissimo delle Mosche cocchiere non basta a nascondere la povertà del pensiero accademico e la stizza del professore punto sul vivo. Memorando, nell’articolo del Carducci, è solo il colpo di coda con cui si scaccia l’insetto, e la sapienza nel prepararlo: “Va’ via, brutta bestia”. L’Ojetti rispose come poté sul «Marzocco» del 28 marzo, una settimana dopo, cercando di fare lo spiritoso (La cenciata di Giosue Carducci). Quanto al Pascoli, il suo intervento, scritto dandosi un po’ di arie e con la distaccata superiorità di chi interloquisce col fiasco alla mano, non si può dire che alzi il tono della polemica. È un Pascoli falsamente disinvolto, falsamente snob, incattivito dal non essere stato envisagé come le altre cime, le altre sommités, e anzi di essere stato a malapena riconosciuto nel gregge carducciano, alla pari col Mazzoni, il Marradi, il Ferrari e Antonio della Porta. Ma il Pascoli ha un merito. È il solo a stanare la carie da cui veniva alla polemica delle “mosche cocchiere” tutto il fiato cattivo. Il Pascoli sposta l’accento sul tema generazionale, identificando nel giovane Ojetti un problema di ’libido’ letteraria, un problema di ’potere’, di conflitto fra giovani che hanno voglia di farsi largo e di vecchi che continuano a chiudere i varchi. Era per l’appunto il suo problema, trasposto e diagnosticato nell’improvvisa suppurazione ’cutanea’ di Ojetti. L’avesse denunciato con più nettezza, l’articolo ne avrebbe guadagnato; così com’è, esso fatica a nascondere sotto la posa e la falsa disinvoltura uno strisciare di meschinità. Aveva proprio ragione d’Annunzio, a chiamare il Pascoli, una volta, “il grande poeta dal meschino arzigogolo”. Ciò che infatti interessa il pascolista, in tutta questa storia, è il riverbero, il riflesso (consapevolmente propagato) nelle prime righe dell’articolo pascoliano, del Ritorno a San Mauro del ’97.

Letteratura italiana o italo-europea?

Quando, caro Ojetti, seppi che tu avevi risposto alle “Mosche Cocchiere”, e non avevo ancora letto la tua risposta, io dissi tra me: Scommetto una bottiglia di Champagne La Tour...

In queste bottiglie la lettera è francese, ma lo spirito è italico, al contrario di quel che è o sarà nei prodotti della presente o avvenire tua letteratura italo-europea. Questo vino è nato proprio di vitigni italici, in terra italiana; in quella terra, anzi, dove è nato anche il tuo umile amico, presso San Mauro di Romagna, in ampie e frondose campagne, dove mi smarrivo fanciullo tra il grano o tra il fieno. Non avevo ancora letto «l’Infinito», ma sentivo (ora ne ho la coscienza distinta e chiara) la poesia che il Leopardi ritrae così bene con così poche e non tinte parole, di quel naufragio nel mare senza orizzonte. C’è di più, nell’oscuro ricordo dell’oscura sensazione, una voce che pareva incorporea, inraggiungibile, vana, che sonava, quasi a chiamare e guidare il fanciullo smarrito, sempre più lontana e improvvisa: la voce, tu hai capito, del cuculo. O voce incorporea, inraggiungibile, vana, non tu schernisci tuttora quel fanciullo che si è fatto uomo e letterato, e si smarrisce nei gineprai delle teoriche e dei sistemi e delle scuole? Voce che suoni sempre improvvisa, e sempre più lontana, or di qua or di là, mi condurrai tu alle marruche e ai borri... del Luso, come solevi allora? Il Luso, per chi non lo sa, è un fiumicello, che a me pareva allora un gran fiume, e mi pareva il limite del mio mondo, il mio Oceanos bathydines. Basta; in quel mio mondo ora non vivo più che con la memoria e col desiderio. E anche essi, quelli di quel felice mondo, mi desiderano e mi ricordano; e il vino, di cui t’ho parlato, me lo mandò appunto il sindaco del paese, l’ingegnere Leopoldo Tosi, che fa per l’Italia qualche cosa di più utile che una letteratura europea; fa un vino, un vino europeo! E sai perché me lo donò? Per riconoscere alcuni felici successi del lontano Sammaurese in una letteratura, oh! questa sì davvero, europea, se non si vuol dire cosmopolitica; perché si giova appunto d’una lingua che si può o si deve intendere dalle persone colte da per tutto: la latina. – Una bottiglia, adunque, di Champagne La Tour scommetto, dissi tra me, che nella risposta dell’Ojetti si toccano due punti...

Premetto, caro Ugo, che ti stimo e ti voglio bene. E l’affetto e la stima che ho per te, li ho anche per molti altri giovani, come te. Ora tu e codesti altri giovani, mi piacete sì in molte cose, ma mi dispiacete in alcune; e io vorrei che mi piaceste in tutto e per tutto. E perché voglio che vi emendiate e viviate, scrivo; e non scrivo a te solo né in privato, perché il male non è di te solo... – Ma tu dài lezione? – Appunto! Non sono io vecchio? non siete voi giovani? Non dite voi l’una cosa e l’altra, a ogni momento, a ogni proposito, in prosa e in rima? Ma non anticipiamo. Si tratta d’uno de’ due punti; anzi di tutti e due.

L’Ojetti dirà, tra le altre, due cose: dirà, ingegnosamente icasticamente allegoricamente, che gran mercé, che non ha altro a desiderare, che tocca sublimi vertice sidera, poiché Giosue Carducci gli ha dato la gloria e l’immortalità; dirà, o prima o dopo, o a principio o in fine, aperto od oscuro, ma dirà, che Giosue Carducci è... vecchio, aggiungendo o no che Ugo Ojetti è giovane. Caro Ugo Ojetti, ho vinto! Leggo l’articolo nel nostro «Marzocco»; e vedo che nella parte allegra di esso articolo, la quale è la massima parte, esprimi la gioia, anzi la gloria, di essere morto (e s’intende che tu credi d’esser più vivo che mai) per mano del Carducci; e che in cinque o sei righe che accordi sul serio alla pompa del tuo trionfo, tocchi di non so che Lalage calva e sdentata... Ah! io avrei voluto perdere la scommessa! Perché, ripeto, ti stimo e ti voglio bene. Or tu, come io aspettava e non desiderava, m’esci con due tratti che mettono un po’ d’ombra nella mia stima e un po’ di freddo nel mio affetto. Non te ne importa? Può darsi: io ne parlo in vero, non per la relazione che essi hanno con la mia affettuosità, ma per l’importanza straordinaria che di loro è manifesta nelle tue osservazioni e profezie critiche, che hanno commosso o mosso in Italia qualcuno, e in fine, Giosue Carducci stesso.

Tu sei giovane, dunque. Tu sei nato sotto il settanta. Prima o dopo? Occorrerebbe saperlo, perché, secondo alcuni, solo quelli nati dopo il settanta possono... Possono che cosa? Che so io? fare la bella e grande prosa. Ma confesso di non saper usare il vostro linguaggio. Dovrei forse dire col Morasso, che trovo citato nel tuo discorso “L’avvenire ecc.”, accogliere... i germogli primaverili e vigorosi che dalla feconda officina degli ideali umani si effusero giovenilmente pel mondo. Bene, si tratta, a ogni modo, non di baldanza ed esuberanza che la nuova generazione mostri, come mostrò la vecchia, ai suoi bei tempi, e così la precedente e via via; non si tratta dell’impazienza di fare, della bramosia di parere, della gioia di esser vivi, solite nei giovani di tutti i tempi. No: c’è sotto una teorica, che annienta, a vostra gloria, o giovani di sotto o di dopo, gl’infelici che nacquero o prima o sopra il settanta. Questa teorica non è necessario che io la ripeta: ognuno, d’imaginativa pur corta, può formularla e ampliarla, se ricordi Sedan e Roma. Io voglio dire soltanto che da essa deriva la maggiore baldanza, esuberanza, impazienza, bramosia, gioia che mostrate voi giovani d’ora, di sopra e di dopo ecc., in confronto di quella che mostravano i giovani d’altri tempi; tanto che spesso, per lei, mancate di rispetto a quelli che voi non riconoscete nemmeno per vostri predecessori e che chiamate “vecchi”, intendendo con ciò di dirne tutto il male possibile a dirsi. Ma sarete castigati, cari giovani! C’è già chi raccoglie per terra i cocci della ciotola, nella quale propinate le vostre teoriche ai vostri babbi! In quella stessa ciotola, puntata alla peggio, berrete tra non molto, tentennando il capo che sarà appena grigio, una teorica nuova, per la quale non sia salute se non per i nati sotto o dopo il milleottocento ottantanove o novantatré!

Ma via! sono scherzi codesti, sono grilli, cari giovani, di gioventù. Sono la forma, assai pedantesca e scolastica, a dir vero, nella quale si attua la vostra potenza giovanile. Dei fremiti, di cui i giovani d’altri tempi componevano congiure e olocausti e battaglie, voi intrecciate teoriche e sistemi letterari che fanno spiritare la buona gente.

In verità siete giovani impazienti di fare; e vi siete dato a credere che l’altrui attività impedisca la vostra. Ma fate, vivaddio, e lasciate fare anche i poveri vecchi, lasciate che essi diano quello che con la lunga meditazione ed esercitazione si sono preparati a dare; e non gridate sin d’ora i vostri genug e assez! Tanto, essi faranno lo stesso. Ma pur vorrei nei vostri discorsi, in cui è così folto e anche dìssono convegno di autorità italiane e forestiere, più spesso forestiere e quasi sempre francesi, vorrei introdurre, se si potesse, la voce del buon senso, di quel buon senso che bastava al Manzoni.

Ecco, a proposito della giovinezza in letteratura od in arte, quello che direi. Ci sono artisti che riescono da giovani, altri che creano da vecchi. Non altro: si potrebbe forse aggiungere che i giovani, che creano, mettono nella loro creazione vita più intensa, e i vecchi più lunga. Ebbene, cari giovani, create; e fate presto; se no entrerete nella seconda categoria; e anche quando siate per essere nella seconda, spicciatevi spicciatevi, che non c’è tempo da perdere! Ma voi per ora vi appagate di dimostrare con grandi girandole di frasi, che voi soli potete fare; e non fate o fate ben poco o ben male. Oh! dal dire al fare... Vedete: altro è studiare, altro divertirsi; altro è meditare, altro ruminare; altro è creare, altro... digerire. Quando voi leggete Maeterlink, Tolstoi, Dostojewsky, D’Annunzio, credete di studiare? Vi divertite. Quando voi disegnate un dramma o un romanzo novissimo, credete di meditare? Voi ruminate. E quando lo fate, quando lo avete fatto?... Ohibò! tutti a gridare, con vostra confusione assai graziosa a vedere. Voi vi rizzate su dalla vostra solenne incubazione, meravigliati al pari ma indispettiti assai più (o con chi non ci ha che vedere) di Bertoldino (prendo un paragone al mio maestro: io non mi vergogno d’aver avuto e avere un maestro!); di Bertoldino che aveva covato ova di papero. Sì che i più persuasivi tra voi mi pare che siano quelli che criticano e profetano, senza creare. Non c’è che dire: i loro sogni sono talora bei sogni, ma, credo, sogni sogni sogni! Volere scisso dal passato l’avvenire dell’arte è come voler lievitato il pane senza lievito. Natura non fa salti. Ma, a ogni modo, poi che non hanno creato, si può augurare di loro, che andranno per altra via che quella per cui hanno annunziato di andare.

E di te, caro Ojetti, si può, anche giurare, che farai e farai bene, tali sono i saggi che hai dato del tuo ingegno. Tu creerai, giova sperare; ma quando sarà quel tempo (affrèttati, ché sono de’ vecchi!) io ripensando a codesto tuo dire e vedendo quel tuo fare, sai a chi ti assomiglierò? A un giovane (vedi che sono gentile!) che sale ora per una viottola del mio poggio, e canta, con lena rotta dalla faticosa salita, canta:

Io vo su ’na barchetta in alto mare...

 E quando creerai, non creerai “con gioia, continuamente, come una sorgente che sgorga da una roccia, come un fiore che s’alza da un prato, come un astro che diffonde luce in cielo”: sono tue parole: no; ti tormenterai, oh! se ti tormenterai! Suppongo (e suppongo perché di certa scienza io non so nulla da me intorno a codesto creare), che la tua creazione non ti sia per sembrare creazione, se ella non ha a essere tua, propriamente e distintamente tua, in tutto e per tutto, e nel suo insieme e nelle sue parti... Tu non mi lasci finire e già mormori non so che cosa di individualismo...

Individualismo, se vuoi; ma io, che lessi già, ai miei bei tempi, le lettere del Bonghi, preferisco dire: stile. Che differenza c’è in vero? Or bene quale novità era mai codesta dell’ormai celebre tuo discorso veneziano, di affermare che gli scrittori odierni d’Italia scrivono ognuno a modo loro? quale novità audace, quale verità incresciosa? Io non mi ci raccapezzo. Ora tu hai l’aria di gettare, con la detta verità e novità, un rimprovero ai detti scrittori, e di annunziare un grande guaio della nostra età e della nostra patria; contrapponendo alla presente disgregazione l’armonica letteratura di altri tempi; ora pare che tu creda che la cosa non possa andare diversamente da come va, e consigli anzi i letterati italiani a rimanere nella loro solitudine. Però, tu dici, faranno (s’intende, non tutti, ma tre soli, il Fogazzaro, il D’Annunzio e forse il Butti) una letteratura che non si potrà chiamare italiana, ma europea o mondiale.

Ma dimmi: si potrà chiamare letteratura la profetata accolta (chiamiamola intanto così) degli scrittori dell’Europa o del mondo, quando essi si ostinino ad avere ognuno il loro stile? Perché tu dici che gli scrittori odierni italiani, per il fatto di avere stile, non for-mano una letteratura italiana. Ma è forse questione di nome. Meglio mi sembra ritenere che come letteratura italiana si dice quella della prima metà del nostro secolo, la quale comprende il Manzoni e il Leopardi, il Foscolo e il Monti, il padre Cesari e Giuseppe Mazzini; così si possa, con tua licenza, assegnare il medesimo nome a quella della seconda metà... Con qualche restrizione, per altro.

Considera, caro Ojetti. Quando tu creerai, vedrai un’altra necessità, oltre quella d’avere stile. Imagino che tu non scriverai in volapuk. Scriverai o in inglese o in francese, che io sappia, o in italiano. Ebbene, vorrai adoperare codesta lingua che adoprerai, nel modo a lei proprio, speciale, intraducibile, con le virtù di suono e di ritmo più segrete e più inviolabili, con la sua capacità d’idee, con la sua vibratilità di parole, con la sua suggestività di sentimenti più intima e nativa. Così hanno fatto gli scrittori di tutti i tempi e di tutti i luoghi, così fanno, per esempio, ai nostri giorni, in Italia, sopra tutti il Carducci e il D’Annunzio. Verrà tempo in cui non si farà più così, caro Ojetti? è già venuto? Dici tu questo, che nell’aspettazione dell’unica lingua strumento dell’unica letteratura, le lingue intanto nazionali debbano rinunziare ai loro caratteri peculiari, ai loro tratti individuali, a ciò che costituisce la loro fisionomia, la loro vivacità, la loro vita? Se dici questo, eh! sappi che, almeno per l’Italia, la tua teorica viene in aiuto di un fatto. È un fatto in vero che in Italia molti scrittori, specialmente giovani, adoperano la lingua in modo, dirò così comune e universale, curando che ella non presenti, o meglio non curando che ella presenti la menoma difficoltà, ai traduttori forestieri. Sarà un buon segno! sarà il segno del prossimo affratellamento dei popoli! Ma intanto io osservo che questi scrittori non sono differenti tra loro più che non siano diversi dagli scrittori, per esempio, francesi senza stile.

Oh! oh! che ci sia già una letteratura europea? una letteratura, i cui letterati, deplorando la mancanza d’una lingua comune, si siano messi d’accordo a usare la loro in modo facilmente intelligibile e traducibile agli stranieri? e come spiegare che sì fatti scrittori senza impronta nazionale nei loro scritti, non hanno più nemmeno impronta individuale, nemmeno stile? Possono bensì l’uno essere mistico e l’altro carnale, l’uno clericale e l’altro marxista, l’uno sollevar la fronte con Hegel e l’altro chinarla con Schopenhauer: ma scrivono tutti a un modo, in qualunque lingua scrivano; il loro scritto tradotto non differisce in nulla per efficacia o per inefficacia, dall’originale; se fosse anonimo, il loro scritto, potrebbe essere, con verisimiglianza, attribuito a cento e dugento autori, o, meglio, non inspirerebbe in nessuno la curiosità di conoscerne l’autore.

Questi cotali non sono scrittori, anche quando siano filosofi e naturalisti; non sono artisti, anche quando sono romanzieri; e allora è molto male perché appunto professano un’arte e non la fanno; e la loro accolta non forma una letteratura né nel loro paese né per l’estensione dell’Europa né per la totalità del mondo. E, guarda: è sempre stato così; perché io non voglio cadere nel ginepraio in cui sei caduto tu; di che ti ha così largamente e persuasivamente ammonito il Carducci; di credere soli dei nostri tempi fatti e cose che sono di tutti: è stato sempre così.

Ci sono stati sempre accanto o meglio sotto gli scrittori, ai piedi anzi degli scrittori veri che costituiscono col loro piccolo numero una letteratura d’un dato tempo e d’un dato luogo, sebbene non siano sempre da soli registrati nelle storie letterarie, pullularono sempre ai loro piedi, dico, gli scrittori innumerevoli che non portano l’impronta né della loro per-sona, né della loro nazione, né della loro razza; e potrebbero figurare in tutte le letterature indifferentemente e sono da tutte ugualmente sdegnati.

Da che ebbe origine la loro tristizia? In alcuni da capitale e totale ignavia, per la quale non se la sentirono di esser vivi; nei più dall’ammirazione che la loro debolezza sentì per una vegeta forza, onde, già che disperavano di vivere una vita propria, vollero vivere l’altrui. Questi più sono gl’imitatori, piccoli mezziviventi; e la loro azione è, come dei microbii, come ripugnante in apparenza, così utile in sostanza; perché distruggendo essi il verde e il vivo dell’autore che attaccano, e in tanto più breve tempo, quanto più rigoglioso e attraente era quello, fanno che un altro sorga in luogo del primo; e così le nazioni hanno più d’un poeta e più d’un oratore. Ma molti no, nessuna. Sì che, se veramente l’Italia d’oggidì conta davvero tutti gli scrittori che tu nomini qua e là, e questi sono così isolati e così dissimili tra loro, ossia non si devono dal critico ridurre a gruppi, a gruppi d’uno scrittore vero con relativi parassiti, a gruppi d’un albero con relative femminelle al calcio, ma sono ognuno uno; se anche gli scrittori odierni non sono tanti quanti dici in alcun punto del tuo discorso, ma molto meno come sembri dire in qualche altro punto; e sono solo due, Gabriele D’Annunzio e Antonio Fogazzaro; eh! via una letteratura italiana esiste ancor oggi! Tanto più che mi par quasi certo che sia nella tua intenzione includerci anche i Carducci; tanto più che... voglio pur dirlo: della letteratura odierna italiana, o diciamo dei letterati, tu non conosci mica molto! Oltre gli scrittori di drammi e romanzi, oltre gli scrittori di versi, oltre gli scrittori di critica, sono altri scrittori, credo: di scienze filosofiche e naturali e storiche. Tra essi nessuno ha l’Italia che meriti di essere ricordato e studiato e ammirato? Il Bartoli non valeva nulla? il D’Ancona non val nulla? il Rajna conta in una letteratura meno, metti il caso, di Arturo Colautti? Errnenegildo Pistelli e Niccola Festa sono giovani meno promettenti di, per esempio, Federigo de Roberto? Giacomo Barzellotti, l’elegantissimo narratore e ragionatore, uno degli ingegni più compiti, più musici, più platonici che sia apparso in Italia mai, si troverà che abbia fatto per la letteratura italiana meno di Giovanni Pascoli? E metto il mio nome con perfetta sincerità, come a caso ho messo più su quello di due valenti. E dire che nelle tue disputazioni il Barzellotti ti venne innanzi con una lettera stupenda, come egli solo sa scrivere; e a te non è nemmeno passato per la mente che egli che sa scrivere, sia uno scrittore. E il Del Lungo? E il Rigutini? E il Fornaciari? E i molti studiosi di Dante, i quali dall’usare col divino Poeta, hanno preso l’abito d’una prosa severa, precisa, armoniosa? E come mai tra i critici non ti sovvenne del D’Ovidio, così fine, così arguto, così malizioso? E come mai tra gli scrittori di prosa narrativa, non degnasti Mario Pratesi, che ha la forza e la grazia, e ti fa vedere proprio i suoi paesi e sentire le sue anime? E come mai, tra i critici o tra i poeti, mostrasti d’ignorare Giuseppe Chiarini, così geniale e così snello, così commosso e commovente? E come mai non trovò grazia presso te la prosa limpida e la diafana poesia di Guido Mazzoni? E Guido Biagi? E... Ma facendo altra cernita, si viene ad altre conclusioni. Si può, per esempio, concludere che una letteratura italiana esiste ancor oggi, come un tempo; e che in Italia sono diverse scuole letterarie, come un tempo; e che in ognuna di esse scuole vi è qualche scrittore notevolissimo e, in alcune, sommo, come un tempo. Si aggiunge che i lettori in Italia sono pochi, come, con diverse proporzioni, da per tutto; che di questi, quali amano uno scrittore o una scuola, quali un altro e un’altra, come da per tutto; che di essi molti preferiscono letture straniere, come da per tutto. Sì, anche questo è fatto comune e naturale, di tutti i tempi e di tutti i luoghi. E comune e naturale è anche l’altro fatto che scrittori mediocri, dal gusto dell’esotico che vedono nel pubblico e in sé stessi argomentano che siano buoni scrittori soli quelli che, per una vicissitudine o un’altra, servono più comunemente a soddisfare tale gusto; e si dànno a imitarli. E non pensano che così rinunziano per sempre a soddisfare il gusto dell’esotico, che hanno i lettori delle altre nazioni; perché sì fatti lettori, da noi e fuori, vogliono che sì fatti scrittori non solo siano ma sembrino stranieri, abbiano, cioè, oltre l’impronta personale anche l’impronta nazionale. Oh! quelli altri sono già ciò che saranno i tuoi europei, i tuoi universali, gente di tutti i popoli perché non è di nessuno. E hanno, poveretti! anch’essi la loro utilità: servono a quelli che leggono per svagarsi o per addormentarsi. Fanno il loro servizio, dunque; ma non si ragiona poi più di loro, e una nazione che non avesse altri letterati che loro, non avrebbe letteratura. Speriamo dunque che gli scrittori italiani perseverino ad avere una personalità distinta l’uno dall’altro e a imprimere nelle loro opere un suggello nazionale, che le distingua da quelle delle altre nazioni; e così possano, di quando in quando, passar le alpi e il mare ed empire il mondo di meraviglia e di gioia, come ora fa Gabriele D’Annunzio con la sua anima sublime d’italianità; ché allora la prima metà del secolo ventesimo avrà la sua letteratura, come la prima, il che assentiamo tutti, e la seconda, il che l’Ojetti non crede, del decimonono. L’Ojetti non crede e io sono tentato da un dubbio. Va bene: l’Ojetti non crede e io non affermo: ai posteri la sentenza. Perché in vero solo essi possono darla, essendo che triplice e triforme è la vita che ha a essere in un’opera letteraria: vita individuale, vita nazionale, vita... durevole. Ora per sapere se questa ultima vi è, bisogna aspettare qualche poco. Lo scrittore vero non semina veccia e lupini; ma pianta ulivi. Il che mi pare disconosca chi si mostra invasato dall’amor di gloriola. È verissimo che lo scrittore scrive per diletto, istruzione, educazione, elevazione de’ suoi contemporanei; ma quando anche si giudichi da’ suoi contemporanei che esso li ha dilettati, istruiti, educati, elevati, il giudizio sullo scrittore non è ancora compiuto. Perché lo scrittore mira ai posteri, si volge alteri saeculo, dice: È vitale il mio verbo? Solo chi vivrà, può rispondere.

Beviamo, caro Ojetti. Tu che sei tanto buon ragazzo e hai tanto ingegno, non ti dar codeste arie di cattivo e di spregiudicato e di amatore di gloriola e di pazzerello per fervore giovanile. Giudica anche in palese, come sono certo che giudichi in cuor tuo, che la gloriola è fuoco di paglia e la giovinezza è sogno d’ombra. Cerca di fermare la giovinezza fuggevole, d’improntarla indelebilmente in qualche canto e in qualche orazione, come ha fatto Giosue Carducci; sogna l’ineffabile risonanza del plauso lontanissimo nella tomba cava e muta. E beviamo lo Champagne La Tour... Vedi, io ho dello stesso bravo produttore e gentile donatore, anche il Sangiovese. Io lamo anche più il mio paesano Sangiovese. Esso non ha preso, per piacere in Italia e fuori, un’etichetta e un’apparenza forestiera: è rimasto tutto italico nello spirito e nella lettera, e non ha fatto concessioni, è un po’ fossile beato, come dice il Morasso, di tutti noi. Ebbene sur una mensa straniera io vedrei con molto maggior mio rapimento questo severo Sangiovese che quell’arrendevole champagne. E se là non ti vorranno, o straniero rigido, sebbene a gara coi migliori succhi dei vitigni bordelesi e ungheresi tu professi di non essere né meno limpido, né meno arzente, né meno sapido, né meno profumato, inebria, o Sangiovese della mia patria, il mio cuore e quello dei fedeli amici. 

Indice Biblioteca Indice dell'opera Progetto Pascoli

© 1996 - Tutti i diritti sono riservati

Biblioteca dei Classici italiani di Giuseppe Bonghi

Ultimo aggiornamento: 19 gennaio 2008