Edizione di riferimento:
Italo Svevo, Tutte le opere, edizione diretta da Mario Lavagetto, vol. II “Racconti scritti e autobiografici”, Edizione critica con apparato genetico e commento di Clotilde Bertoni, saggio introduttivo e cronologia di Mario Lavagetto, Collana “I Meridiani”, Arnoldo Mondadori editore, Milano 2004.
Anima santa che dal ciel mi vedi
Da infimo luogo a te dolce pensiero
Invio, per te piacer anche ove siedi
Non pel bel ma pel buon ch'io ivi inserro.
Ancora ci duol la parte infranta
Ed ancora doler dovria in eterno
Se distrutta non fia del duol la pianta
Da morte ch'io in lontano discerno.
E se del rivedersi gioiremo
Morte sepolcro fia del corpo e '1 pianto
Allor morte m'invoglia e più non temo
Udirò la tua voce il dolce canto
Lo dice la tua voce: Ci rivedremo.
Aspetta tu; noi soffriremo intanto.
Qualche volta mi pare vadano in me diminuendo le orribili impressioni di pietà che mi lasciarono i destini del povero mio Elio. Ecco per evitare un tanto delitto le noterò, forse ne commetterò uno maggiore pubblicandole, se le pubblicherò. Ecco da quanto mi rammento come il tutto avvenne.
Elio era di un carattere appassionato, moltob più del mio; io, in certi lirismi con certe fantasie riesco a sfogarmi, rimango vuoto di pensieri e di sentimenti per ore, per giorni, per settimane; egli ebbe questo da fanciullo a quanto mi rammento; per pacificarsi gli occorreva più tardi scrivere o suonare legarsi a qualche cosa di reale, di più reale almeno di quanto occorre a me a cui basta una strada da camminare. Iod, in fondo, lo piansi poco; è più di un mese che non penso che a lui, ma a lui attraverso a poesia, anche attraverso a filosofia. È certo che se io fossi morto egli mi avrebbe pianto di più. Desidererei che questo fosse stato il caso.
Dunque come io gettai le mie prime illusioni sulla poesia, egli le gettò sulla musica. Pareva fossimo nati a complemento uno dell'altro. In cinque o sei anni mentre io sognava e lavorava tanto poco da non conoscere ancor oggi la mia madre lingua egli lavorava, lavorava al violino, al pianoforte, al contrappunto.
Avendo un organismo manchevole s'ammalò e s'ammalò di nefrite. I primi mesi non s'accorgeva quasi d'avere la malattia, ma più tardi s'impadronì di lui una spossatezza immensa con mancanza d'appetito e degeneramento di tutte le funzioni organiche. Si curava da prima povero putel con bagni caldi e si cacciava dopo sotto un monte di coperte a sudare e sopportava tutto nella speranza di riavere la salute che però non veniva. Allora si gettò in braccio ai ciarlatani; uno gli consigliò di prendere la balla e lo fece; un altro gli consigliò di fare i bagni freddi e ne fece 40 in pieno inverno. Poi venne il Dr. Pinser che lo fece avanzare, avanzare sulla via della salute quasi fino alla guarigione facendolo però poscia ricadere mandandolo a Lovico. Il Dr. Levi lo fece andare allora a letto ove rimase un mese e più. Prima dei bagni freddi Elio aveva già fatto per mesi la cura del latte. Così che i quattro anni che visse furono torture immense. Ma il peggio venne ancora. I D.ri di Vienna gli ordinarono di andare al Cairo ed egli ci andò. Ritornò peggio di prima. Si mise a letto; si enfiò; orinava poco. Egli sempre ancora sperava ma l'orina abbondante si faceva attendere. 4 giorni prima mi diede le disposizioni per il funerale ma il giorno stesso della morte beveva con voluttà l'etere credendo di poter rianimarsi. Morì la sera del 26/9/86. Aveva parlato di politica e di arte fino al dopo pranzo.
Qui giace il dente più laborioso della mia grama bocca
Masticò in 34 anni d’indefessa attività
Bovi interi preparati in vario modo
Dolciumi italo–germanici insalate conserve
Frutta d’Oriente e d’Occidente mature ed immature
Già bacato e mutato di cera
Avrebbe attenuata ma non sospesa
L’attività cui era nato
Volle il fato fero che per gelosia
Alle tenaglie il suo padron lo sommettesse
Nel celibato prosperò sereno
Il matrimonio l’uccise.
Trieste 8.1.’97 ore nove ant.
Ieri essa me ne avvisò, dubbiosa ancora ma già commossa ed agitata. Oggi ne siamo quasi sicuri: Francesco Schmitz è nato. Son cinque mesi che non sappiamo se augurarcelo o temerlo. Restammo perplessi tutt’e due: Ella corse col pensiero immediatamente al n[ostro] pensiero maggiore: – Intanto – disse – non ci sarà più possibile di pagare i n. debiti. – Sì! Certo! Quelli non saranno pagati! – Ma non è quella la preoccupazione maggiore. A me venne in bocca un sapore intenso agro–dolce. Agro perché pensai che i tanti sogni da me fatti sarebbero rifatti da un altro simile a me! Anch’egli, forse, per cervello analogo al mio, avrebbe cominciato col sognarsi il destino di Napoleone e – forse sempre per la stessa analogia – avrebbe avuto quello di Travetti.2 Oh! derisione! Anch’io sarei rinato ai medesimi sogni con lui e per lui e la trista comedia si sarebbe continuata per me fino alla fine. Agro sapore anche perché dubito che la mia dolorosa lotta non abbia impresso sul mio fisico dei segni awilienti, degradanti che tramanderò a lui. E per la stessa ragione, dolce! Ricominciano i sogni le speranze. Avanti! È questa la vita! Probabilmente nell’allargamento del mio egoismo che sarà il mio amore paterno non sentirò me stesso e la mia speranza: Io sono stato così e m’avvenne così! Tu sei fatto a mia immagine, eppure a te accadrà tutt’altra cosa! Non penserai neppure come me! È illogico, sciocco; ma non appena gli vorrò bene, penserò così! Perciò avrò perduto anche la rigidezza del ragionamento unico vantaggio del mio destino. Ma ieri fui geloso e non lo sarò più. Ieri ho bevuto e fumato e non berrò né fumerò più.
8. 1. ’97 ore 2 pom.
Incominciata a scrivere il 12 agosto 1897 ore 12 ant.
30.7.97
Per quanto non appaia in questa fotografia v’è anche il bebé. È per sua comodità che v’è quella balaustrata, la grande idea del fotografo. Naturalmente che levata via anche quella il bebé sarebbe stato istesso zitto e il fotografo non avrebbe avuta nessuna difficoltà di fotografarlo. Allora sì che la persona che lo tiene in braccio sarebbe apparsa quale è veramente non più così giovanilmente regolare come la faccia farebbe supporre! Fotografato ma privo ancora di nome il bebé! Letizia o Francesco si chiama e non sappiamo ancora quale nome preferiamo perché abbiamo risolto di preferire il nome che verrà. Io avrei voluto vederlo coi raggi Rontgen or ora inventati ma la madre si rifiutò a quella fotografia e ho dovuto contentarmi di questa imperfettissima. Perciò poco ne posso dire, anzi non più di quanto ne dica la fotografia stessa. Pare di temperamento impaziente e si dibatte nel suo piccolo carcere con movimenti bruschi che farebbero supporre una volontà formata già differente di quella di sua madre che vorrebbe imporgli di chetarsi. Mia moglie dice già di conoscere un poco il suo carattere perché va facendogli il letto, i vestitini, le fascie come se non si esponesse al rischio di non incontrare i suoi gusti. Tempo fa, non so a proposito di quale oggetto, disse: – Questo, sì, piace ai bebé! –. Io guardai l’oggetto per vedere se ci fosse in esso qualche cosa che rivelasse la sua natura confezionata per il bebé e non ci trovai nulla. Mi rassegnai a comperare l’oggetto in questione, una sedia sulla quale il bebé alla mia età certamente non potrà sedere, pensando: Le donne che fanno i bebé devono conoscerli.
La donna evidentemente bionda che ha l’onore d’essere fotografata al mio fianco si chiamava Livia Fausta Veneziani ed ora, precisamente da un anno, è mia moglie. Devo dire che sono stupefatto sia fatta così. Prende tutto sul serio: La cuoca Maria, il marito e la vita. La cuoca Maria ha torto da tutti i punti di vista: Intanto a costei noi vogliamo più bene ch’ella a noi. È la nostra prima cuoca, l’autrice di quei pranzi che diventavano sempre freddi perché noi invece di mangiare si andava a guardare la casa nuova e tutte le altre nuove cose. Per essa invece noi siamo i decimi padroni e non le importa di noi più che dei nove precedenti. È affezionata alla campagna come un gatto alla casa. Sa però che dopo di noi troverà altra gente in campagna da servire. È rispettosa fino a un certo punto, mangia tutto il pane che trova in casa e, se ne trovasse, berrebbe il vino; vorrebbe anzi vivere di solo pane perché non ama la carne. Altro non ne so dire e poi essa non c’è nella fotografia neppure dietro la balaustrata. Anche dopo un anno mia moglie prende sul serio il marito: Diamine! Il padre dei suoi figli! E tutti i gradi di parentela prende sul serio! La madre è colei cui dobbiamo la vita, il padre idem e in lui c’è inoltre il padrone della mamma e di tutto quello che ci circonda. Ella non ne dubita ma io credo ch’essa in questo rapporto non sia ancora giunta alla rivoluzione francese e che una lettre de cachet venuta dall’autorità patriarcale confermata dal re non l’indignerebbe molto. Il re poi! Quale onore essere rinchiusa per ordine del re! Ella saluta per la prima il capo del comune e il capo della diocesi e se non le rispondono fa nulla perché son le autorità che si salutano e le persone che le rappresentano non hanno veramente altro dovere verso di noi che di rappresentarle. Il mondo dunque è una bella e buona costruzione ideologica dove ognuno ha il suo posto e merita il rispetto del suo posto e deve rispetto agli altri posti. Come sociologia mia moglie non è evoluzionista perché naturalmente le persone mutano ma i posti rimangono. E non c’è veramente contratto sociale. I posti nacquero e vi nacquero le persone che vi stanno assise.
Dopo tutto ciò si capisce come mia moglie prenda sul serio anche la vita. Essa occupò i suoi posti uno dopo l’altro con grande serietà. Credo che anche come bebé ella abbia avuta una certa dignità. Va da sé che l’occupazione del bebé era di poppare, di gridare di notte e di ammalare. I doveri vennero più tardi e a quanto ne so, giovanissima mia moglie imparò a distinguere i vestiti di casa da quelli di fuori e a non mettersi neppure alla porta del giardino coi vestiti di casa, né tardare un istante, giunta a casa, di smettere quelli di fuori.
Io credo in verità che questa seria vita sia stata divisa esattamente in varii periodi dei quali ognuno le apportò le sue gioie e i suoi dolori, tant’è vero che quando vede qualcuno di lei più giovine, ella ricorda subito come era per lei quel periodo. Da ciò le risulta un grande piacevolissimo senso di giustizia: Anch’ella ha avuto in quella data età il piacere di contrariare i voleri anche giustissimi di chi la comandava, di spezzare delle cose per vedere come erano fatte di dentro, di saltare, ballare e gridare, mentre io non ricordo di essere stato mai irragionevole o almeno se lo sono stato considerandomi ogni giorno quale un animale nuovo, non ammetto di ricordare e giustificare i miei trascorsi passati. Quell’animale di quel giorno avrebbe dovuto essere punito e gli animali irragionevoli miei contemporanei vorrei castigarli io stesso. – Quando io ero così... – ella dice sovente mai con rimpianto. Altra cosa che non capisco questa mancanza di rimpianto pel passato. Devo credere ch’ella sia tanto giusta pel presente da metterlo, senza eccessivo entusiasmo, accanto al passato e riguardarli entrambi come equivalenti. Parrebbe indifferenza e invece, conoscendola, mi consta ch’è un’assoluta ed inesplicabile gioia di vivere. Sto spaventato talvolta a guardarla quando gioisce delle cose esistenti o meglio ancora delle cose possedute. Quanta capacità di felicità e d’infelicità! A me il dubbio perenne non solo sull’essere o non essere ma anche sul mio e tuo dà tanta mortale indifferenza che tutto quanto mi può succedere potrà addolorarmi, irritarmi, anche farmi piangere ma non stupirmi! In fondo che cosa è stupefacente? Piovano sassi e saran caduti dalle stelle, si spacchi la terra e sapevamo che c’era fuoco dentro, tutta l’umanità si converta e si componga tutta di santi o d’assassini e noi sapevamo che poteva diventare così perché una sua parte era sempre tale. Ella invece ode ogni giorno delle cose nuove che la stupiscono e la rendono pensierosa. Non dubbi, veh! Per quelli non c’è posto. La preghiera a tempo debito è ascoltata lassù, molto spesso non è esaudita ma allora l’uomo ha la conscienza d’aver fatto tutto quello che doveva e può stare tranquillo.
Così fatti stiamo insieme e la cosa è ancora più stupefacente. Ma scusate! Io, creato per la ribellione, per l’indifferenza, per la corruzione, sempre ammirato di quello che potrebbe essere e mai ossequiente a quello che è, mi sposai con la convinzione che si stava facendo un nuovissimo esperimento di sociologia, l’unione di due uguali legati da un’inclinazione che potrebb’essere stata anche momentanea, un’unione da cui la gelosia doveva essere bandita dalla scienza cioè la rassegnazione alle cose e ai sentimenti esistenti, un’unione che non imponeva a nessuno dei due un mutamento perché in fondo per stare insieme non si ha mica bisogno di somigliarsi! Mi sposai certo che se uno dei due avesse cambiato, quello non sarei stato io! Anzi volevo cambiare un po’ mia moglie nel senso di darle la libertà e insegnarle a conoscere se stessa. Mi procurai alcuni libri di Schopenhauer, Marx, Bebel (La donna) proponendomi non d’imporli ma a poco a poco di insinuarli. Invece dai nostri rapporti la letteratura, almeno quella ch’io specialmente, voleva, scomparve. Una sola volta si discussero le mie idee e quella a proposito di Heine. Accidenti a quel romantico ch’io una volta in mia vita, nel calore della discussione, dovetti proclamare quale il mio Dio! Poi mi si lasciarono le mie idee e con abilissima, dolcissima politica si evitò di inquietarmi parlandomene. Già per quella borghese la cosa essenziale è di viver in buona pace con tutti e tenersi le proprie idee nella piccola testa difesa da tanti capelli, non le importa di convincere. Mentre noi siamo tutti apostoli di qualche idea o del nulla!
Questo debbo lasciarle e dicendolo non so se provo ammirazione o ira! Ella non convinse nessuno ma la mia casa somiglia più a lei che a me. C’è un grande ordine, qualche oggetto bello di cui ella si compiace grandemente ed io naturalmente con lei; talvolta si fa qualche sacrificio per procurarsi un oggetto di cui si sentiva il bisogno anche solo per sostituirlo ad altro che compiva benissimo il suo ufficio ma aveva un aspetto poco bello. Io acconsento ma faccio anche di peggio: Discuto o anche rifiuto. Giorni fa ebbi questa bellissima idea: Ella parlò di far introdurre le stufe a gas. Bisogna sapere che da noi il gas costa come se fosse estratto dall’oro invece che dal carbone. Io ricordai delle massime di buona massaia che, se non isbaglio, dovrei aver apprese da lei e rifiutai il mio consenso. C’è senza dubbio un grande piacere a rifiutare qualche cosa a farla così da padrone assoluto e fui stupefattissimo all’accorgermi che il mio rifiuto fatto per compiere un esperimento interessante, veniva preso sul serio. Perciò ebbi qualche dubbio e adesso, da buon padrone di casa sto io studiando se sia opportuno d’introdurre in casa le stufe a gas. Eccomi dunque veramente padrone di casa.
Insomma mia moglie, i miei suoceri, le cugine, i cugini dicono ch’io sono un buon marito e il peggio si è che quando me lo dicono io non m’adiro.
II. Contratto nuziale fra Livia e Ettore stipulato addì 10 Luglio 1900 ore 4 pomeridiane
1. Ettore promette di non fumare.
2. Livia " " " più civettare.
3. " " di fare buoni pranzi con maggior quantità di patate fritte.
4. " " di far figliuoli o tenterà di farne struccando di più.
5. " " " castigare Titina quando costei farà dispetti a papà.
6. " " di adunare quanta dolcezza potrà per circondare di dolcezza
la vecchiaia di suo marito.
7. " di studiare il piano. Punti essenziali il 1 e il 7.
Ettore Schmitz
Livia Schmitz
LIVIA Oh, Ettore il vittorioso. Tu hai trovato modo di dimostrare come sia possibile al più perverso di ritornare alla virtù. Quando tu sarai morto io confezionerò con la tua carne un succo che venderò quale un filtro per la virtù. Sarà la dote di Titina.
ELVINA Dolorosamente debbo constatare che nella mia famiglia non c’è stato finora alcun esempio di tanta virtù. Papà e Piero fumano ambidue in modo che nel nuovo quartiere il padrone di casa ha proibito formalmente che stieno anche per soli istanti tutt’e due nella stessa stanza. Salve glorioso centenario.
FAUSTA Oh, mi fosse dato di vincere il mio turbolento carattere come a te è riuscito, oh, sommo; di ritornare all’antica virtù di quegli antenati che non fumavano perché l’uso del tabacco non conoscevano.
Fra tutti i cognati del Litorale tu sei senz’alcun dubbio il più forte. Salve.
GINA Io, se fossi un uomo fumerei sempre. Tanto più ammiro te, oh, eroe, che non essendo donna non fumi più.
DORA
A mio cognato Bruno
Il grande gatto stava a guardare serenamente seduto nella carrozza rientrata da poco in rimessa le donne che avevano finito di lavare la biancheria e se ne andavano dopo di aver gettato un secchio d’acqua nel fuoco. L’ambiente tutto s’inumidì e s’intiepidì per il vapore che s’elevava a getti nell’aria. Il gatto pensò: “Come è buono che tanta gente pensi al tuo benessere. Fuori soffia la bora ed io dovetti rinunziare al giro che uso di fare quando Tyras è in casa e Turco è ancora alla catena. Maledette bestie! Io le lascerei in pace e non capisco perché non si possa vivere tutti d’accordo uniti intorno al nostro comune padrone sior Gioachino. Esse dicono che in casa non mi si ami. Ma per chi poi avrebbero fatto venire in rimessa questa carrozza chiusa tanto bene se non per me? Oggi soffia la bora e mi sta giusto bene. Nella mia carrozza estiva incominciavo a gelare. Peccato che non abbiano chiusi i vetri”. Il gatto chiuse gli occhi e sognò che avessero chiusi anche i vetri e che tutt’intorno avessero scaldato con quel buon vapore tepido così ch’egli invece che stare sempre sulle quattro zattine nel minimo spazio possibile per fruire del proprio calore e concentrarlo avrebbe potuto stendersi comodamente su quei soffici guanciali con la pancia all’aria come d’estate al sole. “Non capisco perché non lo facciano” pensò il gatto. “Si starebbe tutti meglio.” Con quel tutti egli pensava esclusivamente a se stesso. Fuori intanto Turco abbaiava. “Buono” pensò il gatto “che Toni è un cocchiere accurato il quale non dimentica di chiudere la rimessa. Così almeno non corro il rischio di svegliarmi destato dagli odiosi suoni di Turco come quella notte in cui passai dal sonno alla lotta più dura. Ci perdetti il pelo e la pelle della zampa destra.” Gli passarono dinanzi alla mente tutti i particolari della lotta. A un dato momento ad onta degli sforzi fatti e di tanto sangue perduto egli aveva trovato la forza di salvarsi con un balzo enorme su del legname ch’era posto in un canto in mucchio alto e stretto. Là s’era sentito tanto sicuro che aveva potuto cominciare a curare la propria ferita mentre Turco saltava furiosamente, qua e là, minacciando da persona che ha capito di non aver altra arma fuori della minaccia. La notte naturalmente non era stata bella tant’è vero che la sera appresso il gatto aveva esitato di rientrare nella rimessa. Poi s’era deciso! Sior Gioachino aveva subito congedato Giusto il quale gli aveva giuocato quel brutto tiro di lasciar aperta la porta della rimessa e il nuovo cocchiere aveva l’aspetto di persona molto attenta. Perciò si fidò di ritornare al posto abituale e fece bene perché da allora egli passò tutte le notti tranquille.
In questi pensieri il gatto s’addormentò. Sognò che sior Gioachino comperava la campagna vicina e dichiarava: – Questa la destino esclusivamente ai gatti. Nessun cane toccherà giammai questo suolo. Acciocché però sia permesso al gatto di venir a dormire in questa rimessa a cui egli s’è affezionato darò ordine che di sera vengano messi alla catena anche Tyras e Pronto —. In sogno il gatto pensò: “Tyras capisco! Ci ha il suo posto e la sua catena e non capisco perché non ve lo tengano giorno e notte quell’odiosa bestiaccia. Ma per Pronto bisognerà fare un’altra cuccia. Quante spese!”.
Il gatto si svegliò. Non capiva donde gli derivasse il profondo malessere che gli aveva interrotti i dolci sogni. “Deve esserci qualche cane in rimessa” pensò lodando il proprio istinto squisito. Con prudenza senza fare alcun rumore poggiò le zatte anteriori alla portiera e guardò fuori. Cani non c’erano! Bestie stolide, rumorose si sarebbero tradite subito. Nella rimessa c’era un denso fumo. Doveva essere ancora sempre il vapore dell’acqua gettata dalle donne nel fuoco. Il gatto non si tranquillò e restò in vedetta. In quella posizione però fu trascinato dall’osservazione delle esteriorità al sentimento di un grande turbamento interno. Si sentiva male! Il sangue gli rumoreggiava alle orecchie, aveva un velo fosco dinanzi agli occhi e la respirazione non gli dava alcuna soddisfazione. Saltò dalla carrozza ma le gambe non servivano più bene ed egli rotolò con violenza sul suolo contundendosi le coscie. Dallo slancio era arrivato fino al camino. Le pietre scottavano! Allora il povero gatto con un’ultima risoluzione zoppicò fino alla catasta di legno che un’altra volta l’aveva salvato e vi salì proprio fino al punto più alto. Di là guardò d’intorno. Dei bagliori rossi attraversavano il denso fumo e giungevano fino a lui. Il gatto traballava! Sentiva che il male gli entrava nel corpo per la bocca e pel naso. Abbracciò strettamente un pezzo di legno e vi appoggiò la bocca per non respirare. “Farò mandar via anche questo cocchiere” pensò. S’accorse che rotolava giù dalla catasta ma una grande sonnolenza gl’impediva di far anche un solo movimento per arrestarsi. Quanto tempo rotolò così? Gli pareva di cader sempre, sempre, eppur non sentiva
Trieste 14 Agosto 1921
Abbiamo ieri sepolto Gioachino ed io credo urgente non di dire la mia ultima volontà ma di far sì che la compagna della mia vita, mia moglie Livia, trovi dopo la mia scomparsa, una parola di saluto e d’incoraggiamento. Ricordi come è stata con me sempre buona e dolce e come io abbia apprezzato la sua bontà e dolcezza di cui addirittura vissi, per evitare quella sua nervosità che la fa soffrire alla scomparsa di ogni membro della sua famiglia. Non voglio insistere ma sappia che io sono pago dell’affetto ch’essa mi dimostrò in vita e che dopo morte non domando lutti onoranze o cose simili. Essa deve vivere come il suo desiderio le indica, e la mia morte le conserva e accresce la libertà ch’io non sminuii giammai deliberatamente. In complesso con tante parole io non voglio far altro che mandarle un ultimo bacio affettuoso. Addio cara Livia!
Ai miei figli Antonio e Letizia Fonda la raccomando. Trovi in loro un appoggio accompagnato da tutto l’affetto e il rispetto ch’essa merita. Questo, spero, verrà considerato sempre come la constatazione ch’io faccio di sentimenti esistenti nei loro cuori e non come una mia ultima volontà. Mando anche a loro un bacio affettuoso augurando che fra di loro continui immutato l’affetto che li unì e che fu la gioia mia e di Livia.
Il mio funerale sia semplice, modesto, civile. Voglio seccare il prossimo meno che posso e del resto le cose vadano semplicemente la loro via senza ostentazioni di nessun genere, neppure di modestia. Livia cioè disporrà come le parrà e piacerà.
Della mia sostanza la metà vada a mia moglie, l’altra metà a mia figlia. Spero anche qui di non aver disposto di niente perché, secondo il bisogno per la loro volontà, che io so ne fruirà una o l’altra. Tutto quello che fosse mio in casa (mobili, libri e quadri) restano di mia moglie. Ma i quadri del Veruda non bisogna vendere se non fosse a qualche ente o persona da cui al pittore risulterebbe fama e onore. A mio genero Antonio Fonda io lascio i quadri che si trovassero nella sua abitazione al momento della mia morte. Per una vendita eventuale gli raccomando d’attenersi alla disposizione qui sopra ma non intendo di legare! Comunicai un mio desiderio. Già le cose di valore camminano da sé!
Mia moglie si occuperà con la sua bontà dei deboli nella mia famiglia. Io spero che Umberto Ancona al momento della mia morte non avrà più bisogno di nessuno. Altrimenti finché la sua debolezza non derivi da una sua trascuranza la prego di aiutarlo come feci io sinora. Se Carmen e Angelo Vivante fossero privati del loro appoggio naturale e se gli altri loro ottimi parenti lo consentissero o domandassero vorrei essa s’associasse loro nel proteggerli e dirigerli.
A mio genero Antonio Fonda lascio la mia macchina da scrivere col tavolino.
Al Dott. Aurelio Finzi l’orologio d’oro con la catena che fu di mio padre e di mio fratello Adolfo.
A Ortensia Schmitz di Ottavio il mio violino che fu di mio fratello Elio, con la cassetta di Hill.
Stesi le seguenti disposizioni testamentarie addì 22 Agosto 1927 assolutamente certo di trovarmi in buona salute e godere di perfetta lucidità di mente:
I. I mobili, quadri ed altri oggetti di casa che potessero essere di mia proprietà restano proprietà assoluta di mia moglie Livia Schmitz n[ata] Veneziani.
II. Del denaro liquido e dei titoli e valori che possedessi al momento della mia morte dispongo come segue:
10% (dieci per cento) a mio genero Antonio Fonda Savio per dargli un debole segno della mia gratitudine per l’affetto che sempre mi dimostrò.
45% (quarantacinque per cento) a mia moglie Livia.
45% (quarantacinque per cento) a mia figlia Letizia.
III. Qualora le mie opere letterarie, contrariamente ad ogni aspettativa, avessero a dare un reddito qualunque, questo dovrebbe andar diviso nelle proporzioni stesse del denaro liquido, divenendo però obbligo di Antonio di curarsi della diffusione delle opere o incaricarne altri continuando una sua attiva sorveglianza sulle persone da lui incaricate.
Il premio che appar legge mi spettasse per il mio servizio nella Veneziani S.A. vada a chi di diritto appar la legge stessa. Esigo però che alla Veneziani S.A., per il pagamento venga concesso il tempo ch’essa domandasse p.e. pagamento ripartito entro dieci anni con abbuono d’int[eresse] al tasso di Banca. Forse alla Veneziani non importerà affatto di questa mia disposizione. Io la faccio solo allo scopo di esprimere la mia gratitudine alla Società e ai suoi dirigenti per la vita lieta e gradevole che passai lavorando per essa in fraterna compagnia con gli altri direttori.
Mi raccomando: niente rabbini e niente preti.
Mi raccomando: puntura al cuore.
E non saluto nessuno perché spero di rivedere tutti questa sera.
Firmato:
Ettore Schmitz
Trieste, li 22 Agosto 1927.
Note
________________________
[1] Testo inedito
[2] Nota: Il testo, inedito alla morte di Svevo, è stato pubblicato nell’Epistolario a cura di Bruno Maier (vol. I dell’Opera Omnia, Milano 1966)
[3] Nota: Il testo, inedito alla morte di Svevo, è stato pubblicato nell’Epistolario a cura di Bruno Maier (vol. I dell’Opera Omnia, Milano 1966)
[4] testo inedito
[5] testo inedito
[6] testo inedito. Pubblicato per la prima volta da Umbro Apollonio in Saggi e pagine sparse, Mondadori, Milano 1954