Benedetto Croce – Il Dante “giovanile” e il Dante della “Commedia” – E-book gratis

La poesia di Dante è principalmente, e si potrebbe dire quasi unicamente, la poesia della Commedia, perché nella Commedia egli giunse tutt’insieme alla piena originalità e all’eccellenza artistica. Con l’enunciare questo giudizio non s’intende certamente togliere pregio alla Vita nuova, alle rime amorose e alle altre del Canzoniere, ma solamente dare opportuno risalto a quel che è indubitabile, e che un superstizioso e indifferente ammirare talora non lascia vedere: al fatto, cioè, che nei primi suoi lavori poetici, e negli altri che ne proseguono il genere, Dante si aggira tra motivi e sopra schemi comuni nella letteratura del tempo suo, e non li sovverte e cangia profondamente traendone cosa propria e nuova, ma li accarezza nei particolari e solo qua e là v’introduce qualche movimento suo proprio, qualche immagine diretta.

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“La letteratura della nuova Italia. Volume IV” di Benedetto Croce

Croce affronta adesso l’analisi critica di alcuni scrittori e poeti tra i più importanti tra quelli che hanno operato a cavallo dei XIX e XX secolo, D’Annunzio, Pascoli, Fogazzaro. L’analisi del critico è circostanziata e – sebbene risaltino e siano sottolineate con particolare vigore debolezze e difetti – non priva di apprezzamento. A proposito di D’Annunzio, Croce mette in guardia dalle voci denigratorie a senso unico, ma ribatte con dettagli e precisi riferimenti i gravi indizi di plagio, che sono in ultima analisi gli stessi che qualche anno dopo furono ripresi dai testi più audacemente antidannunziani che si conoscano: Antidannunziana di G.P. Lucini e La Superfemina abruzzese di Fr. Enotrio Ladenarda (entrambi questi testi presenti nella biblioteca Manuzio). Scrive infatti Croce:

«E quando, anni addietro, furono svelate queste e altre derivazioni e imitazioni, se ne menò grande scalpore; quasi che alcune decine e un centinaio di pagine tradotte o imitate possano mai cangiare la figura storica del D’Annunzio, autore di una ventina di volumi ben suoi. Il quale avrebbe operato prudentemente a non dare ai critici il gusto di coglierlo nel reato di non confessata imitazione; ma egli è, qualche volta, come un ricco che fa debiti e non li paga, sicuro che nessuno dubiterà mai ch’egli sia in grado di pagarli. Comunque, la rivelazione ha qualche importanza pel critico; e sarebbe stato criticamente assai piú proficuo procedere a raffrontare le imitazioni del D’Annunzio con gli originali, perché da ciò sarebbe scaturita, per quel che mi sembra, nuova conferma della prepotente personalità artistica di lui. Non voglio qui indagare se il D’Annunzio abbia migliorato o guastato quei racconti del Maupassant (direi piuttosto la seconda cosa); ma mi preme osservare che egli li ha certamente sottomessi alla medesima selezione, alla quale, adolescente, sottometteva, come si è visto, i suoi primi modelli.»

Del Pascoli sottolinea invece la propensione a un sentimentalismo superficiale; per entrambi i poeti Croce indica come la loro propensione al decadentismo abbia aperto la strada al futurismo, movimento per il quale certamente non ha in serbo giudizi troppo positivi:

«[…] piú tardi nel D’Annunzio e piú presto nel Pascoli, quel freno [cioè l’esempio carducciano] s’allentò, e proruppe in essi la letteratura decadente, che era in agguato nelle loro anime, e l’uno e l’altro diventarono precursori e avviatori del futurismo. Il Pascoli, meno vigoroso del D’Annunzio, il quale ha avuto una sua forza di gioia sensuale che è stata la sua sanità e si è guastato soprattutto con l’intellettualismo dell’eroico e ora del religioso; il Pascoli, che era disposto al sentimentalismo, doveva piú gravemente soggiacere al decadentismo, e futurismo, alla spinta analitica, alla disarmonia, al disgregamento, alle smorfie e alle sconcezze dell’impressionismo inconcludente. E poiché la sua corruttela estetica prendeva per materia la pietà, la bontà, la tenerezza, la tristezza, la morte (diversamente dal D’Annunzio il quale si compiaceva di altre cose, che davano scandalo ai timorati), al Pascoli è stato possibile soddisfare in modo decente quel che era di malsano nelle anime timorate, e persino nei preti: ‒ come, per un altro verso, il Fogazzaro è stato il D’Annunzio dei cattolici, e ha scritto per le famiglie cattoliche il Piacere e il Trionfo della morte sotto i titoli di Daniele Cortis, di Malombra e di Piccolo mondo moderno.»

In questa frase è già evidenziata la linea di critica che verrà sostenuta a proposito di Fogazzaro.

Estremamente lusinghiero è invece il giudizio espresso su Francesco Gaeta, certamente tale da invogliare la lettura o la attenta rilettura di questo poeta forse troppo spesso relegato tra i “minori”:

«A me assai piace il breve canzoniere pubblicato testé dal Gaeta, uno di quei libri tutt’altro che frequenti che riempiono subito la fantasia di ritmi e d’immagini: di ritmi non estrinseci, d’immagini fresche e immediate, le quali non scivolano via senza traccia, ma entrano a far parte della nostra anima, e si riaffacciano insistenti.»

L’ultimo saggio di questo quarto volume è incentrato sulle vicende della vita culturale, letteraria, giornalistica e politica di Napoli – e, più in generale del meridione – negli anni subito seguenti alla sconfitta del regno borbonico e all’annessione dei territori fino allora governati dai Borboni all’Italia piemontese. Spiccano le figure di De Sanctis e Spaventa e viene analizzato come il loro pensiero e la loro pratica influirono sulla ristrutturazione delle università degli studi guidando la transizione tra una gestione privata degli studi a quella gestita dal nuovo stato. Di grande interesse la riproposizione del dibattito sulla libertà d’insegnamento che ha visto protagonista Settembrini e il già menzionato Spaventa. Il panorama disegnato da Croce è forzatamente a volte superficiale, per cercare di non dimenticare nessuno dei protagonisti della vita culturale napoletana dell’epoca, ma di grande interesse perché leggendo le sue pagine possiamo vedere riportati alla ribalta personaggi oggi quasi dimenticati. Quasi tutti conoscono e hanno letto almeno qualcosa di Salvatore Di Giacomo, i cui testi vengono ancora oggi ristampati e riproposti da varie case editrici, ma ben pochi ricordano invece Anna Carlotta Leffler:

«una scrittrice svedese di forte ingegno, Anna Carlotta Leffler, seguace e ammiratrice dell’Ibsen, autrice di vigorose novelle, alcune delle quali (dopo la morte immatura dell’autrice accaduta nel 1892) furono tradotte in italiano, ma ebbero scarsa divulgazione. Io stesso fui mosso dalla Leffler a leggere per la prima volta il teatro dell’Ibsen nella versione tedesca; e scrissi allora, come prefazione a un dramma di lei, un breve cenno sull’Ibsen e sulla letteratura scandinava moderna.»

Certamente proveremo a dare il nostro piccolo contributo perché le opere di Leffler siano nuovamente conosciute oggi.

Resta da sottolineare il vigore di un pensatore come Croce il quale, benché certamente ricordato, viene spesso offuscato per il suo, talvolta davvero monocorde, idealismo opposto incessantemente a ogni forma di positivismo. Mi pare interessante citare un concetto, sempre espresso nel saggio La vita letteraria a Napoli dal 1860 al 1900, che pare riassumere e anticipare in poche righe i concetti fondamentali dell’epistemologia che sarebbero stati sviscerati e discussi nella seconda metà del XX secolo da pensatori come Popper, Kuhn, Lakatos e Feyerabend, pur se con approcci e quadri filosofici di riferimento molto diversi:

«Perché nella vita laica moderna, cacciato il clero in un angolo della società e destinato forse in tempo non lontano a perdere via via importanza e a diventare esclusivo strumento di occhiuta politica o manipolatore di superstizioni, lo «stato ecclesiastico» si viene ricostituendo nelle istituzioni scientifiche e nella classe professorale, alle cui mani è affidato Dio, ossia la Verità. E, guardando di là dai veli, è agevole scorgere in molte e molte cattedre la moderna forma dei canonicati; in molti bilanci universitarî, quella che si chiamava un tempo la manomorta; e in molte adunanze di Facoltà, i costumi stessi di quei capitoli che si radunavano ad sonum campanellae e dove accadevano ariostesche scene d’intrighi e di discordie.»

Quante volte, purtroppo, sentiamo, nei più diversi ambienti, la fatidica frase “credere nella scienza” che rappresenta uno dei più stridenti ossimori che possano essere immaginati. E quante volte in base a questo ossimoro si tarpano le ali a dibattiti, indagini, ricerche, che, al di fuori di una mistica fede nella quale la scienza si compiace talvolta di racchiudersi, potrebbero avere sviluppi importanti anche sotto i loro aspetti sociali e politici. Non profeta, il Croce, ma certamente capace di osservazione e analisi di grande interesse anche a distanza di tempo di oltre un secolo.

Sinossi a cura di Paolo Alberti

Dall’incipit del libro, con il capitolo dedicato a Gabriele D’Annunzio:

È fuor di dubbio che il D’Annunzio occupa un gran posto nell’anima moderna e che lo occuperà di conseguenza nelle storie che si scriveranno della vita spirituale dei nostri tempi. Intorno a ciò mi parrebbe ozioso disputare, né so rispondere senza impazienza alla domanda, che cosí spesso si ode risonare nelle conversazioni: «Credete che il D’Annunzio sia davvero artista?». Credete? E come, di grazia, si farebbe a credere altrimenti? E che cosa è l’entusiasmo e il fanatismo di tanta gente per l’opera sua, e che cosa l’odio feroce di tant’altra, se non il segno che ha sempre accompagnato l’apparire e il manifestarsi degl’ingegni che si levano sul livello comune? E che cosa il lavorio di pensiero che ormai da un ventennio ferve intorno a quell’opera, se non il riconoscimento del suo valore? Alla critica spetta miglior ufficio che affermare o negare ciò che è evidente. Essa deve procurare di farsi mediatrice tra quelle tesi e sentimenti opposti, tra quell’amore e quell’odio, e collocare in giusta luce il suo autore e mostrare da qual punto bisogni guardarlo per giudicarlo rettamente.

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“Croce e Grifo” di Amedeo Pescio

Genova è vista in genere come città legata al mare, ai viaggi, al turismo balneare delle sue riviere. Meno spesso si ricollega nell’immaginario collettivo al suo montagnoso entroterra, alla durezza del lavoro, alla capacità di saper gestire il poco nel proprio sostentamento unita alla volontà di godere di ciò che la natura offre, non solo per il benessere del corpo ma anche dello spirito in uno scenario nel quale storia e mistero si rincorrono da sempre, dalla preistoria al medio evo, dalla rivoluzione industriale ai giorni nostri.

La Croce di San Giorgio e il Grifone danno il titolo a questa raccolta di articoli, scritti nei primi anni del ventesimo secolo e pubblicati originariamente su vari giornali, ma in particolare su “La Liguria Illustrata” di cui Amedeo Pescio era direttore; Croce e Grifo, entrambi tutt’ora simboli della città. La prima immortalata nelle bandiere della Repubblica Marinara e presa a modello dagli inglesi perché era rassicurante innalzare sui propri pennoni un emblema simile a quello delle navi genovesi; il secondo, mitologico incrocio tra aquila e leone, è da sempre simbolo della città, e della sua squadra di calcio, fieramente rampante e con la coda alta – solo provvisoriamente l’arroganza di casa Savoia obbligò a raffigurare il Grifone con la coda abbassata – trainò persino il carro di Dante nel Purgatorio.

Pescio coglie con maestria e con l’amore per la sua terra tutti questi aspetti, conducendoci in un viaggio nella città storica e tra le sue bellezze più celate. Riscoprendo quelle che riemergono da antichità dimenticate e salutando con nostalgia quelle che stavano (cento anni fa…) per scomparire, già allora tra le accuse e i sospetti di incresciose speculazioni: la collina di Sant’Andrea e le sue carceri che vennero demolite (e la collina spianata) per far posto alla piazza che sarebbe diventata il centro della nuova città; la prigione dei debitori, La Malapaga, che Pescio vide in piedi prima della sua scomparsa. Ma forse a Pescio avrebbe fatto piacere sapere che il Chiostro di Sant’Andrea sarebbe stato davvero in gran parte salvato – oggi sta accanto alla casa di Colombo subito fuori Porta Soprana – e che le Mura di Malapaga, dopo essere stato scenario di un famoso film interpretato da Jean Gabin, sono oggi preservate nell’ambito della valorizzazione del Porto Antico. Forse per una sorta di contrappasso al posto delle carceri demolite c’è un nuovo palazzo della guardia di finanza…

Ogni angolo della città descritto da Pescio diventa pretesto per un excursus storico; la casa di Luciano Doria ci porta alle repubbliche marinare e alle battaglie di Zara e Pola fino alla morte eroica di Luciano Doria stesso; lo spianamento della rupe di San Benigno ci riconduce alla prigionia di Giano di Lusignano nella cella della Lanterna e alle altre vicende al noto simbolo di Genova legate e delle quali la rupe di San Benigno fu testimone.

Entriamo insieme a Pescio nella chiesa di San Pietro in Banchi, l’unica chiesa che sorge “al secondo piano” sopra i negozi con l’affitto dei quali ne venne finanziata la costruzione. Parlando di piazza Banchi, sede anche dell’antico palazzo della Borsa, Pescio ci parla del venditore di uccelli che esponeva la sua mercanzia sulle scale della chiesa stessa. Non ci narra però che di fronte alla chiesa venne arsa viva Cattarina da Rapallo, detta anche “la cagna Corsa”; ancora oggi nella piazza possiamo individuare la pietra annerita che ricorda il punto esatto nel quale venne innalzato il rogo.

Pescio parla, forse, soprattutto per i genovesi, e soprattutto per i genovesi di una volta, per cui lascia sottinteso e inespresso quello che probabilmente ai suoi tempi era comunemente conosciuto. L’accenno alla risposta del doge Francesco Maria Imperiale Lercari a Luigi XIV, il quale, dopo aver obbligato il doge stesso a una visita riparatrice a Versailles, gli domandò cosa lo avesse meravigliato maggiormente della sua reggia, credo sia infatti incomprensibile per chi non conosca la vicenda. Francesco Lercari rispose «Mi chi» (io qui, rigorosamente in lingua genovese), ma è certo che Pescio riesce, anche in questa un po’ fumosa rievocazione, a far trasparire il grande amore per la propria terra del quale Lercari si faceva interprete.

Conosciamo quindi non solo i nomi e i fatti delle grandi famiglie che hanno fatto la storia di Genova (Fieschi, Doria, Spinola) ma anche delle meno nobili ma non per questo incapaci di lasciare un segno profondo come Dodero a Boccadasse e Macciò a Masone. Proprio negli ultimi capitoli Pescio rivolge uno sguardo ammirato e commosso alle vallate dell’entroterra. Anche qui troviamo assieme alle bellezze naturali le vestigia superstiti di una storia lunga e leggendaria. Pescio non può quindi non accennare alla bella de Torriggia: tutti a vêuan e nisciûn s’a piggia, che identifica perentoriamente nella leggendaria Clementina, amante di Sinibaldo Fieschi; e a Beppin Musso, il gran diavolo, terribile brigante certamente ingaggiato da Luigi Domenico Assereto per le sue ambigue manovre durante il “blocco di Genova” a cavallo tra XVIII e XIX secolo.

Lo sguardo di Pescio sul cimitero monumentale di Staglieno si posa su due cari concittadini nel 1906 da poco defunti: il primo è Gandolin (Luigi Arnaldo Vassallo) e lo si ricorda ancora oggi – anche nella nostra biblioteca Manuzio – e il secondo è l’alpinista delle Apuane Emilio Questa che era da poco incorso nell’incidente mortale nell’ascesa alla Aiguille D’Arves, da lui stesso definita più facile rispetto a quella apuana dell’Alto di Sella. Oggi Emilio Questa lo ricorda chi giunge al rifugio al Lago delle Portelle, nel cuneese, a lui intitolato.

Il volume si conclude con un testo sull’antica città romana di Libarna (oggi amministrativamente in provincia di Alessandria) e alle sue vicissitudini dovute, tra l’altro, anche al passaggio della ferrovia. Quello che auspicava Pescio non è avvenuto e i reperti più preziosi reperiti in questa impresa archeologica non sono a Genova ma a Torino.

Il libro di Pescio ha chiaramente un taglio divulgativo e giornalistico, ma apre la strada a una conoscenza di Genova diversa e più attenta rispetto all’immagine vacanziera che spesso si ha in mente. Storia e leggenda sono dosate in maniera sapiente e avvincente, vicende avvolte spesso da mistero e da un alone quasi magico incantano la fantasia di chi legge. Ma non è difficile vedervi dietro un lungo lavoro fatto di letture, studio, accurata e minuziosa ricerca. Quasi in ogni capitolo scorgiamo senza esitazione l’applicazione seria e ben documentata che mai offusca con inutile pedanteria incanto, fantasia e suggestivo fascino.

Sinossi a cura di Paolo Alberti

Dall’incipit del libro:

Quando la Cortesina gaia e bella, fiore vermiglio di messer Martino, vergin reina della Domoculta, rise e pianse l’ultimo bacio della bocca pura sull’omero paterno, sopra il capo canuto, incline dolcemente alla carezza della bimba biondissima e leggiadra… quando la Cortesina uscì nel sole di sue nozze, e più non venne, dal gineceo dei D’Oria, cicaleccio e ridere malizioso d’ancelle, e tacque il donnesco stupor gentile attorno ai bei cofani incisi, morbidi di sete… il D’Oria bianco restò con dei fantasmi nella squallida casa dei suoi morti, nella squallida casa dei suoi anni, fatti ricordi e spasimi.
L’Evangelista in quel suo cuore stanco, dov’era un figlio morto e mai sepolto, mise il fervor di Dio, mise la speranza e la luce della morte: la verità della seconda vita…

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