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Seconda guerra di indipendenza italiana - Wikipedia

Seconda guerra di indipendenza italiana

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

La seconda guerra di indipendenza italiana (26 aprile 1859 - 12 luglio 1859) vide confrontato l'esercito franco-piemontese e l'esercito dell'Impero d'Austria. La sua conclusione permise il ricongiungimento della Lombardia al Regno di Sardegna e pose le basi per la costituizione del Regno d'Italia.

Indice

[modifica] Antefatti

Camillo Benso conte di Cavour, primo ministro del Regno di Sardegna dal 1852 avvia una serie di riforme e si avvicina alla Francia e all'Inghilterra al fine di guadagnarsi un posto tra le potenze d'Europa più progressiste. In questa prospettiva nel 1855 invia un corpo di Bersaglieri nella Guerra di Crimea al fianco di Francia, Inghilterra e Turchia.

Nel luglio del 1858, a Plombières in Francia, Cavour e Napoleone III firmano un trattato segreto (gli Accordi di Plombières) con cui la Francia si impegna ad intervenire a fianco del Regno di Sardegna in caso di attacco austriaco. Contropartita per questo aiuto, in caso di annessione al Piemonte di Milano, Venezia e Bologna, sarebbe stata la cessione della Savoia e di Nizza alla Francia. Cavour si sarebbe peritato di non incoraggiare eventuali sollevazioni mazziniane, slegate dalla guerra reale.

Dall'inizio del 1859 il governo piemontese adotto un comportamento smaccatamente provocatorio nei confronti dell'Impero d'Austria. Erano tornati, infatti, in Italia Giuseppe Mazzini e Giuseppe Garibaldi: a quest'ultimo venne affidato il compito di organizzare un corpo di volontari, i Cacciatori delle Alpi, senza porre limiti all'arruolamento di fuoriusciti dal Lombardo-Veneto austriaco. Quest'ultimo, informato degli accordi di Plombières, desise di fare la prima mossa, con l'intento di replicare la operazione così ben riuscita al maresciallo Josef Radetzky contro Carlo Alberto, a Novara nel 1849. Il 26 aprile l'Austria dichiarò guerra al Regno di Sardegna: la Francia era impegnata ad una alleanza difensiva che Napoleone III, non senza resistenze interne, decise di onorare.

[modifica] L'invasione austriaca del Piemonte

Già il 29 aprile l'esercito austriaco del Gyulai attraversò il Ticino nei pressi di Pavia ed invase il teritorio piemontese, il 30 occuparono Novara, Mortara e, più a nord, Gozzano, il 2 maggio Vercelli, il 7 Biella. L'azione non veniva ostacolata dall'esercito piemontese, accampato a sud fra Alessandria, Valenza e Casale. Gli austriaci arrivarono sino a 50 km da Torino.

A questo punto, tuttavia, il Gyulai invertì ordine di marcia e si ritirò oltre il Sesia e poi verso la Lombardia: un ordine espresso da Vienna, infatti, gli aveva suggerito che "il miglior teatro di operazioni è il Mincio", lì dove gli Austriaci avevano, appena 11 anni prima, domato l'avanzata piemontese e salvato i propri domini in Italia. Così facendo, tuttavia, gli Austriaci rinunciavano a battere separatamente Piemontesi e Francesi, e consentivano il ricongiungimento dei due eserciti. Il comando austriaco, inoltre, operava una totale inversione strategica, che difficilmente può essere spiegata senza ipotizzare una certa confusione. Certamente non ne fu responsabile il Gyulai, al quale, semmai, può essere riproverata una certa debolezza nell'azione.

[modifica] La liberazione della Lombardia

Il 14 maggio 1859 Napoleone III, partito il 10 maggio da Parigi e sbarcato il 12 a Genova raggiunse il campo di Alessandria ed assunse sul campo il comando dell'esercito franco-piemontese. Con il grosso dell'esercito rietrato al di quà del Ticino e del Po, il 20 maggio 1859 il Gyulai comandò una grande ricognizione a sud di Pavia. Essa venne fermata alla battaglia di Montebello (20-21 maggio) dai francesi del generale Elie Frédéric Forey, futuro maresciallo di Francia, ottimamente sostenuti dalle cavallerie sarde del colonnello Morelli di Popolo.

Il 30 ed il 31 maggio i Piemontesi del Cialdini e del Durando riportarono una brillante vittoria alla battaglia di Palestro. Un contrattacco venne affidato al terzo regimento degli zuavi del colonnello de Chabron, alla quale prese parte lo stesso re Vittorio Emanuele II di Savoia, che ne venne gratificato del titolo di caporale degli zuavi.

Parallelamente avanzavano anche i Francesi che il 2 giugno varcarono il Ticino: essi assicurarono il passaggio battendo gli Austriaci alla battaglia di Turbigo. Il Gyulai aveva concentrato le proprie forze nei pressi della cittadina di Magenta dove venne assalito il 4 giugno dai francesi i quali riportarono una brillante vittoria. La vittoria è principalmente da attribuire al Patrice de Mac-Mahon ed allo Auguste Regnaud de Saint-Jean d'Angely, che in tal modo si guadagnarono sul campo la promozione a maresciallo di Francia, ma vi ebbero un ruolo primario anche lo [Emmanuel Félix de Wimpffen]] ed il generale Manfredo Fanti, a capo dell'unico reparto sardo impegnato.

Il 5 giugno l'esercito sconfitto sgombrava Milano, dove entrava il 7 giugno il Mac-Mahon (preceduto dalle truppe algerine dei Turcos), per preparare l'8 giugno l'ingresso trionfale di Napoleone III e Vittorio Emanuele attraverso l’arco della Pace e la piazza d'armi (oggi Parco Sempione), dove era schierata la Guardia imperiale, e quindi la città, fra le acclamazioni della popolazione.

[modifica] Garibaldi ed i cacciatori delle Alpi

Il 22 maggio i Cacciatori delle Alpi, passarono in Lombardia dal Lago Maggiore a Sesto Calende, con l'obiettivo di operare nella fascia prealpina in appoggio alla offensiva principale. Il 26 difesero Varese da un attacco di superiori forze austriache guidate dal generale Urban. Il 27 maggio batterono il nemico alla battaglia di San Fermo ed occuparono Como, allora la città maggiore dell'area. Dopo Magenta da lì seguì la ritirata austriaca: l'8 giugno era a Bergamo, il 13 a Brescia, entrambe già evacuate dagli Austriaci.

[modifica] L'avanzata verso le fortezze del Quadrilatero

Nel frattempo gli Austriaci si raccolsero oltre l’Adda, tappa per le fortezze del Quadrilatero. La strada passava per Melegnano, cittadella forificata che ospitava un ponte in pietra ad arcata unica sul fiume Lambro, adatto al passaggio di carriaggi e truppe. La sera del 6 giugno vi si sistemò una brigata di retroguardia forte di circa 8.000 uomini, oltre a due squadroni di dragoni ed ussari. La sera dell'8 giugno la città venne presa dai Francesi dopo sangiunosissimi combattimenti (1'000 caduti fra gli attacanti e 1'200 per i difensori) (battaglia di Melegnano). Il grosso dell'esercito austriaco aveva proseguito, indisturbato, la sua marcia ed era stato raggiunto a Verona dall'Imperatore Francesco Giuseppe I d'Asburgo, che aveva rilevato il comando dal Gyulai.

I Franco-Piemontesi ripresero la marcia il 12 giugno, il 13 passarono l'Adda, il 14 raggiunsero Bergamo e Brescia, il 16 passarono l'Oglio, il 21 erano oltre il Chiese. Essi erano giunti, infine, lì dove lo stato maggiore austriaco aveva desiderato di incontrarli.

[modifica] Solferino e San Martino

Il 24 giugno i franco-piemontese vincono una grande battaglia (normalmente divisa in battaglia di Solferino e battaglia di San Martino), inziata con un massiccio attacco austriaco. Al termine dello scontro gli Austriaci sono rigettati oltre il Mincio, ma lì possono appoggiarsi alle loro grandi fortezze, e ricevere rinforzi dalle varie parti del loro vasto impero. Napoleone III dedice, quindi, di avviare colloqui di pace e prende contatto con Francesco Giuseppe. Le operazioni militari non vengono sostanzialmente più riprese. L'8 luglio viene sottoscritto un accardo di sospensione delle ostilità. L'11 luglio i due imperatori si incontrano in località Villafranca di Verona. Il 12 luglio viene sottoscritto l'armistizio.

[modifica] La pace di Zurigo

La pace di Zurigo viene negoziata e siglata fra il 10 e l'11 novembre 1859: gli Asburgo cedevano la Lombardia alla Francia, che l'avrebbe girata ai Savoia. L'Austria conservava il Veneto, il Trentino, il Tirolo meridionale, la Venezia-Giulia e le fortezze di Mantova e Peschiera. I sovrani di Modena, Parma e Toscana avrebbero dovuto essere reintegrati nei loro stati, così come i governanti papalini a Bologna. Tutti gli stati italiani, incluso il Veneto ancora austriaco, avrebbero dovuto unirsi in una confederazione italiana, presieduta dal Papa.

[modifica] Conseguenze: l'annessione dei ducati

Il trattato era tanto lontano dalla realtà da presentare per gli Italiani almeno tre vantaggi: (1) la confederazione italiana non presentava alcun vantaggio per la causa nazionale ed anzi garantiva la continuazione di un ruolo austriaco nella penisola, risultando, quindi, sgradito anche ai Francesi; (2) le popolazioni dell'Emilia e dell'italia centrale provvidero a ribellarsi all'ipotesi di ritorno dei loro governanti, e Cavour seppe convincere le cancellerie europee dei rischi che si offrivano alla cospirazione mazziniana; (3) i guadagni del Piemonte erano decisamente inferiori a quanto pattuito a Plombières, e quindi il Piemonte non era più tenuto a cedere Nizza e la Savoia. Ma Napoleone III necessitava di tali compensazioni territoriali, per giustificare la guerra appena combattuta presso la propria opinione pubblica. Non mancavano, quindi, i margini di manovra e Cavour seppe metterli a frutto, compiendo quello che è, forse, il suo vero capolavoro. Da ex-primo ministro, fra l'11 luglio 1859 ed il 19 gennaio 1860, eppoi ancora al governo dal 20 gennaio.

Nei mesi successivi, infatti, il Piemonte annesse, oltre alla Lombardia, anche Parma, Modena, l'Emilia, la Romagna e la Toscana. Mancavano le Marche e l'Umbria, che venivano nel frattempo riprese dai papalini (massacro di Perugia). Solo a seguito di detti avvenimenti il 24 marzo 1860 il piemonte accettò di firmare il Trattato di Torino, in base al quale venivano cedute la Savoia e Nizza (tranne Tenda, che sarebbe stata perduta solo nel 1945).


[modifica] Conseguenze: la spedizione dei mille

Nel Regno delle Due Sicilie, il giovane Francesco II succeduto al padre Ferdinando II, morto prematuramente, diventa facile preda di consiglieri interessati alla causa unitaria e non percepisce la gravità della situazione. In pratica, spera nella politica della moderazione, il che consente ai carbonari di infiltrarsi anche nei ranghi dell'esercito; ma, l'effetto di tale politica sarà di incoraggiare i nemici e scoraggiare i sudditi fedeli.

All'inizio di aprile del 1860 le rivolte a Messina e Palermo benché soppresse, costituiscono la prova generale per un intervento al sud, già tentato con precedenti sbarchi, nel 1844 (Fratelli Bandiera) e nel 1857 (Carlo Pisacane).

Il 5 maggio 1860 Giuseppe Garibaldi salpa su due vapori pagati dal governo sardo all'armatore Raffaele Rubattino da Quarto con 1033 volontari (da cui il nome di Spedizione dei Mille) e, dopo una sosta a Talamone, l'11 maggio sbarca vicino Marsala alle ore 13 circa, fra due navi Inglesi preavvisate che, di fatto, coprono lo sbarco, mentre la diplomazia piemontese si unisce al coro europeo di protesta contro l'atto di pirateria del "bandito Garibaldi", (tale era lo stato giuridico di Garibaldi per il Piemonte).

A Marsala non ricevono l'accoglienza sperata. Le forze a disposizione di Garibaldi aumentano comunque grazie agli sbarchi successivi di soldati dell'esercito sardo, in borghese con regolare licenza, e successivamente con i carcerati liberati. Per sfuggire alle forze borboniche, i garibaldini si dirigono verso l'interno, protetti dalle bande di picciotti del barone Sant'Anna.

Mentre il generale borbonico Lanza, con una decisione disastrosa, frena le truppe nella battaglia di Calatafimi, Garibaldi avanza occupando Palermo e impossessandosi dell'oro del Banco di Sicilia. Intanto Alexandre Dumas accorre per organizzare la propaganda della spedizione dirigendo diversi giornali. La marcia dei garibaldini avanzerà sino Salerno. Solo a quel punto, il Re Francesco II, consapevole del tradimento dei suoi generali, si mette alla testa del suo esercito, che è ancora di 50.000 soldati, per una difesa estrema del Regno nella piana del Volturno.

Le truppe borboniche, ormai formate esclusivamente da reparti fedeli, guidate in battaglia dal generale Giosuè Ritucci si battono con molto vigore ed eroismo impegnando pesantemente i garibaldini ma non colgono il successo per il mancato coordinamento tra alcune colonne. Gli scontri, notevolmente cruenti e luttuosi per le due parti, si chiudono con un nulla di fatto che, in pratica, significa per i borbonici la sconfitta. Francesco II, che era uscito da Napoli con l'esercito per salvare la capitale dalla distruzione, ha lasciato le consegne all'ex ministro di polizia, ora primo ministro, Liborio Romano che, in accordo con i liberali, invita Garibaldi in città. Garibaldi entrerà il 7 settembre 1860.

Nel frattempo, due contingenti piemontesi, comandati da Manfredo Fanti e Enrico Cialdini entrano da nord nello Stato Pontificio, scontrandosi con il generale Lamoricière presso Ancona il 29 settembre.

Il 9 ottobre il comando delle truppe piemontesi viene assunto direttamente da Vittorio Emanuele II. Vittorio Emanuele e Garibaldi si incontrano a Teano. Il Re di Sardegna scioglie l'esercito garibaldino, mentre Garibaldi si ritira a Caprera. Superato l'ultimo ostacolo con il bombardamento di Capua, le truppe piemontesi si attestano di fronte alla fortezza di Gaeta dove Francesco II, senza aiuto da parte di altre potenze europee, ancora resisteva.

Solo la Francia si schiera a protezione della fortezza dal mare, coprendo da quel lato i borbonici; infatti, Napoleone III contava di convincere Francesco II a una resa, dopo una resistenza simbolica. Dopo che la Francia, convinta da Cavour, allontana le sue navi Cialdini può completare l'assedio con l'intervento di Persano al comando della flotta, (in prevalenza formata da navi ex borboniche).

Negli ultimi giorni d'assedio, durante le trattative per la resa, (avvenuta il 14 febbraio 1861) non ci fu alcuna interruzione nel bombardamento della piazzaforte. Analoga condotta, anzi aggravata da minacce di esecuzioni di massa dei "ribelli", fu tenuta verso le piazzeforti di Messina (resa del 12 marzo 1861) e Civitella del Tronto (20 marzo, tre giorni dopo la proclamazione del Regno d'italia). In quest'ultimo caso, anzi, le minacce furono attuate con la fucilazione degli Ufficiali e Graduati, considerati "briganti".

L'asprezza che ha caratterizzato la fase finale di questa campagna militare si spiega essenzialmente con la frustrazione dei vertici politici e militari del Regno Sardo, che, sino all'ultimo avevano fatto grande affidamento su un sollevamento generale della popolazione, sollevamento che, in realtà, quando si verificò, non fu nel senso sperato ma in quello opposto, qualificato come "brigantaggio".

[modifica] Conseguenze: la proclamazione del regno d'Italia

Con tali operazioni si compie di fatto la prima fase dell'unità d'Italia; rimanevano ancora separati dal Regno di Sardegna Roma, possesso del Papa, e il Veneto, in mano agli Austriaci.

È interessante notare come Cavour fosse consapevole dei problemi di tipo amministrativo che sarebbero sorti dalla annessione delle nuove province, tanto da far istituire tra il 10 e il 26 maggio 1859 la Commissione Giulini con il compito di elaborare progetti di legge che sarebbero entrati in vigore in Lombardia nel periodo immediatamente successivo alla guerra. Cavour voleva che il governo, nel sancire l’annessione dei nuovi territori al Piemonte di Vittorio Emanuele, mantenesse separati gli ordinamenti amministrativi delle due regioni, lasciando che in Lombardia continuassero a sussistere una parte delle istituzioni austriache esistenti. I lavori della Commissione Giulini sono stati pubblicati a cura di Gianfranco Miglio.

Il 18 febbraio 1861, Vittorio Emanuele II di Savoia riunisce a Torino i deputati di tutti gli Stati che riconoscono la sua autorità, assumendo il 17 marzo il titolo di Re d'Italia. L'Italia viene governata sulla base della costituzione liberale adottata nel Regno di Sardegna nel 1848 (Statuto albertino).


[modifica] Voci correlate

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