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Male - Wikipedia

Male

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Nota disambigua - Se stai cercando altri significati della parola, vedi Male (disambigua).
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«Si Deus est unde malum? Et si non est, unde bonum?»
(Boezio, De consolatione philosophiae)

Il male può essere definito come il contrario del bene e quindi il contrario di ciò che è desiderabile.

Si possono distinguere varie accezioni di male: fisico, metafisico e morale.

Indice

[modifica] La filosofia e il male

Si può analizzare il male sotto diversi aspetti e basandosi su differenti criteri.

Volendo trattare il tema con un approccio filosofico, si possono adottare tre diverse prospettive, recuperando così una scansione già utilizzata da Leibniz, il quale la riprese a sua volta da S. Agostino. In questa visione il problema viene decomposto in termini metafisici, morali e fisici al fine di rispondere ai seguenti interrogativi di fondo:

  • appurato che il male esiste, che cos’è e in che cosa consiste?
  • come si configura in relazione all’uomo?
  • quali sono le sue rappresentazioni e le sue possibili manifestazioni nel reale?

[modifica] Il male "metafisico"

Dal punto di vista metafisico e soprattutto per certa tradizione filosofica antica (in particolare per S. Agostino, ma tenendo presenti anche i filosofi della Grecia antica come Platone e Aristotele), il male, essendo l’esatta antitesi del Bene e quindi dell’essere, si configura come una privazione di essere o, che dir si voglia, con il non-essere stesso. Il Male, non avendo di per sé consistenza autonoma, essendo privazione del Bene ed esistendo quindi solamente in virtù dell’essere e come suo esatto contrario, è un accidente della realtà.

[modifica] S. Agostino e la non-sostanzialità del Male

S. Agostino risolve infatti la dibattuta questione sostenendo la non-sostanzialità del Male, poiché Dio non crea il Male, ovvero il non-essere, ma solamente il Bene, ovvero l’essere che in ultima istanza si configura come la vita stessa. Secondo quest’ottica e secondo i disegni di Dio il Male quindi, in se stesso, non esiste: esso non è però pura allucinazione dell’uomo comune che è portato a scorgerlo nelle realtà contingenti e transitorie del mondo. E’ invece l’uomo stesso che, con la libertà che gli è stata data (il libero arbitrio, ovvero la possibilità di decidere del proprio futuro) e attraverso le sue scelte, decide di servirsene e di praticarlo. L’essere umano fa ciò sostanzialmente per due motivi: per un desiderio di “autodeterminazione assoluta”, ovvero per un’incondizionata autonomia di scelta e per l’emancipazione totale da Dio, e per il “falso oggetto” del suo amore (che non è più rivolto a Dio ma al mondo materiale). Quelle appena trattate sono tematiche comuni (e forse più adatte) all’analisi del Male di tipo morale, di cui si parla di seguito.

Dopo aver prima abbracciato e poi abbandonato la dottrina manichea, Agostino distinse il male in tre categorie:

  • male ontologico - la creaturalità - l’essere ed il bene sono proporzionali; quindi tanto più perfetto è ontologicamente un ente, tanto “più bene” si troverà in esso: ora, per quanto perfetto sia un ente, in quanto creato non potrà mai coincidere con “il” bene, perché sarà comunque ontologicamente più povero del Creatore. Di questa povertà ontologica Dio non è responsabile e quindi lo stesso male non è qualcosa, ma solo “privatio boni”, privazione di bene;
  • male morale - il peccato - anche questo non dipende da Dio in quanto è una conseguenza della libertà di scelta;
  • male fisico - il dolore e la morte - anche di questo Dio non è responsabile in quanto non è null’altro che la conseguenza del peccato.

[modifica] Il Male "morale"

Dal punto di vista morale (dal latino mos, al genitivo moris), ma anche etico-religioso, – quindi dal punto di vista delle abitudini comportamentali dell’uomo e delle sue relazioni all’interno della società e del mondo – il Male si identifica con il peccato, ovvero con il rifiuto, il più delle volte consapevole, di attuare il bene proprio e altrui ma anche di raggiungere il Bene stesso, il che si esplica nel commettere il Male e quindi nel non accettare la subordinazione ad un essere superiore che, in questo caso, è Dio.

Questo tipo di Male ‘morale’ è dunque strettamente connesso con il concetto di libero arbitrio, ovvero della libera scelta data all’uomo, il quale può decidere in modo autonomo di se stesso e della propria esistenza, vale a dire se seguire la strada del Bene o se votarsi al Male, se comportarsi secondo coscienza e responsabilmente o se seguire soltanto l’irrazionalità dell’istinto; in definitiva se percorrere biblicamente, la ‘retta via’ indicata da Dio o se operare una sorta di ‘deviazione’. Deviazione che non rimane tuttavia impunita ma che per sua natura (ovvero in quanto è immorale ed è essa stessa, se vogliamo, contro natura) può condurre al delitto, che si configura come la più alta manifestazione del peccato, vale a dire l’aberrazione dalla legge divina che genera la colpa (per i temi del delitto, della colpa, e del castigo, v. par. 3.1).

[modifica] Kant e il Male radicale

In termini simili si trova la concezione del Male secondo Kant, il quale sostiene un’inclinazione e una tendenza naturale al Male, che in virtù di ciò, egli chiama Male radicale, ovvero qualcosa che non può essere né distrutto né estirpato, ma che è radicato nella stessa esistenza dell’uomo e che fa parte della sua stessa natura, in quanto l’individuo umano è sostanzialmente un peccatore ed è responsabile di esserlo perché libero e consapevole delle proprie scelte. Questa ‘predisposizione’ al Male è quindi da ritenersi come “un atto libero che dev’essere imputato come un peccato, di cui [l’uomo] si è reso colpevole”.

[modifica] Schelling e il Dio in divenire

Caratterizzazioni simili a quelle riportate da Kant assume il discorso sul Male fatto da Schelling. Anche secondo costui la stretta relazione fra libertà umana e Male terreno è d’obbligo; infatti, abbandonata l’idea di un Dio ‘statico’ sede di tutte le perfezioni, egli ammette che in Dio stesso si ha una coincidentia oppositorum che non fa altro che rivelare il suo carattere dinamico e dialettico. Infatti il Dio di Schelling è un dio in divenire perché in esso sono presenti una serie di contrari che nel mondo materiale e nella realtà delle cose si esplicano con la graduale vittoria del positivo sul negativo, del Bene sul Male. Infatti “l’ambiguità del reale è tale che il Bene stesso può generare il Male”, un Male che quindi non è pura invenzione dell’uomo bensì è frutto della sua libera scelta, dettata da quel consapevole atto di ribellione e deviazione da Dio di cui parlava lo stesso Kant. Il Male del mondo ha dunque la sua causa prima nell’uomo stesso il quale, essendo compos sui (padrone di se stesso) ed essendogli data, in virtù di questo, la libertà di scelta fra due strade e fra due modi di vivere opposti, sceglie il negativo e commette il peccato, alterando in tal modo il piano divino e l’ordine cosmico della realtà.

[modifica] Kierkegaard: angoscia, disperazione e fede

Riprendendo e facendo propri il problema del Male e del peccato, il filosofo danese Sören Kierkegaard elabora, nei suoi due scritti principali, il concetto dell’angoscia e La malattia mortale, un’interessante teoria che pone al centro del suo interesse i temi dell’angoscia e della disperazione.

L’angoscia è la condizione fondamentale dell’uomo nel mondo e in relazione al mondo ed è generata dalla libertà di scelta e quindi dalla possibilità, insita in ogni azione, di fare il Male o di cadere in errore. L’angoscia si configura pertanto come elemento costitutivo di ogni individuo, perché connessa con le possibilità di successo dell’azione umana, ed è fondamento del peccato originale. Adamo infatti , ancora ignorante del giusto dallo sbagliato, del consentito dal proibito, ancora incapace di distinguere il Bene dal Male, era pervaso dall’angoscia delle possibilità: vedeva cioè dischiusi davanti ai suoi occhi un’infinità di orizzonti possibili.

Altro tema tipicamente kierkegaardiano è la disperazione che, diversamente dall’angoscia, è la condizione dell’uomo in relazione a sé stesso ed è generata dal fatto che l’io può volere come non volere essere sé medesimo [poco chiaro]: in entrambi i casi si genera la disperazione, che si configura come una vera e propria “malattia mortale” per l’uomo. L’unico modo valido per combattere sia l’angoscia che la disperazione è, per Kierkegaard, la fede, cioè l’ammissione della propria non-autosufficienza e quindi il riconoscimento della dipendenza da Dio.


[modifica] Il Male "fisico"

Seguendo la definizione lessicale: "Il Male fisico è quello immediatamente percepito dai sensi ed è causato da una perturbazione del normale stato di salute di un individuo, perturbazione di origine morbosa o causata da un violento scompiglio causato dall’esterno". Esso è riconducibile alla malattia fisica e ad uno stato di dolore e di sofferenza del corpo, durante la quale viene meno quella condizione di benessere che è naturale in uno stato di salute non alterato dal malessere e dalla spossatezza.

Le sue cause prime sono molteplici ma la filosofia tradizionale ha puntato l’attenzione soprattutto sulle seguenti due:

  • il Male rientra nel quadro finalistico della natura, è radicato cioè nella stessa natura dell’individuo;
  • il Male è un castigo della Provvidenza (o dell’ordine cosmico) per rendere migliori gli uomini.

[modifica] Il male nella letteratura italiana e latina

Il male assume importanza anche come fondamento e spunto per molti autori della letteratura italiana e latina e, conseguentemente, di molte loro opere.

[modifica] Seneca e le tragedie

Seneca
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Seneca

Lucio Anneo Seneca mostra nelle sue tragedie il lato forse più sconosciuto della sua personalità, l’altra faccia di quel vir sapiens et bonus suicidatosi per la giusta causa della libertà, di quel saggio stoico che andava predicando l’imperturbabilità, la giustizia e il Bene.

Le tragedie senecane, spesso a sfondo mitico e con personaggi presi in prestito dalla tradizione mitica e tragediografica greca, si configurano come uno studio oculato e preciso dei comportamenti umani, soprattutto per quanto riguarda le esperienze del Male e della morte. In esse Seneca parla uccisioni (anche all’interno del gruppo familiare o a danno di amici), di incesti e di parricidi, di rituali di magia nera, di maledizioni e di predizioni quanto mai macabre, di cerimonie di sacrificio e di atrocità d’ogni genere, di crisi d’ira e di gesti incontrollabili, di atti di cannibalismo e di azioni nefaste, di insane passioni e di un uso folle e spregiudicato della violenza. Nelle tragedie senecane domina insomma incontrastato, l’irrazionale e il Male.

A testimonianza di ciò si nota che Seneca non ricorre all’uso del deus ex machina (ovvero dell’entrata in scena, soprattutto sul finire dello spettacolo, di un dio ‘volante’, sostenuto per mezzo di una fune da un complesso sistema di carrucole) per mezzo del quale solitamente si aveva la risoluzione pacifica del dramma (il lieto fine) oltre che la giustificazione del Male compiuto nell’azione. Questo perché le sue tragedie ci offrono uno spaccato di vita nella quale non c’è né rimedio né soluzione alle atrocità commesse. I personaggi sono, in questo senso, comunque condannati: ad esempio Fedra è inevitabilmente destinata al suicidio, in preda al rimorso per l’incesto col figliastro Ippolito.
Prototipo maligno per eccellenza è però Medea, colei che invoca rabbiosa e vendicatrice le forze del Male per abbattere e distruggere ogni cosa in modo da rendersi giustizia, dopo essere stata ripudiata da Giasone che in cambio sposa Creusa.

Nelle tragedie di Seneca si assiste quindi ad un completo rovesciamento dei punti di vista, secondo cui ciò che apparirebbe naturalmente privo di senso, anomalo e degenerato, finisce per apparire del tutto normale, oltre che lecito. Le anime malate che egli rappresenta sembrano inoltre aver perduto una volta per sempre il senno, ovvero la ragione, senza la quale il mondo sembra essere diventato preda di ombre e di mostri in completa balìa del Male e delle forze dell’inferno.

[modifica] Il pessimismo

Molti scrittori sostengono che nel mondo vi sia una costante prevalenza del Male sul Bene, e giungono per questo a negare per l’uomo ogni possibilità di progresso e di miglioramento, giudicando la condizione di ogni individuo come un continuo perpetuarsi di dolori e di sofferenze. Concezioni di questo genere sono fatte proprie da quella corrente letteraria (ma anche filosofica) che, a partire dall’Ottocento fino ad arrivare ai giorni nostri, riscosse e riscuote tutt’ora un discreto successo: essa va sotto il nome di pessimismo, termine ricavato dall’aggettivo latino pessimus, a sua volta superlativo di malus.

Dall’analisi etimologica risulta quindi ancor più evidente lo stretto e implicito legame concettuale che sussiste fra il pessimismo e l’idea del Male, ovvero la convinzione che quest’ultimo sia inevitabilmente presente nelle sorti umane e del mondo.

[modifica] La "frustrazione" intellettuale di Foscolo e Leopardi

In ogni epoca storica l’uomo ha sempre cercato e desiderato la felicità per sé e per gli altri e non trovandola, ha tentato di costruirsela idealmente, nella propria mente, nel proprio cuore ma anche nella propria fantasia: in una parola sola, nelle illusioni. Parlando di illusioni il riferimento a Ugo Foscolo e Giacomo Leopardi è d’obbligo. Essi infatti, vissuti in un periodo di importanti stravolgimenti storici (ma anche letterari, filosofici e artistici), sentivano il bisogno di partecipare alle rivoluzioni sociali e culturali che si stavano svolgendo proprio davanti ai loro occhi, desiderosi di trovare un proprio posto all’interno della società in modo da rendersi promotori e partecipi del cambiamento e della stessa storia. Questo però non avvenne, ed entrambi si rifugiarono nell’introspezione, sentendosi come vittime del proprio tempo. Da qui nasce il loro pessimismo (che in Foscolo assume toni più tenui, mentre in Leopardi sono più cupi e marcati) e la necessità di cercare un’alternativa al dolore rifugiandosi nell’illusione.

[modifica] Foscolo e le illusioni

Optò quindi per questa soluzione Ugo Foscolo che, deluso nelle sue speranze, nella fiducia attribuita a Napoleone (trasformatosi da liberatore a tiranno) ma anche nelle infelici sorti delle sue travagliate vicende amorose e sentimentali, si era tormentato in un amletico dilemma fra ragione e cuore; un conflitto dovuto appunto alla caduta degli ideali in cui aveva sempre creduto, rivelatisi oramai progressivamente pure illusioni.

Risente di questo cupo pessimismo forse l’opera più conosciuta dell’autore, Le ultime lettere di Jacopo Ortis, nella quale il protagonista sceglie la via del suicidio perché non riesce più a sopportare la crudeltà del mondo e la propria sconfitta, la quale è duplice: politica da un lato (per il tradimento di Napoleone) e amorosa dall’altro (poiché l’amata Teresa sposa un altro uomo). Il suicidio si configura così come rifiuto del presente e della vita e si traduce, stoicamente, come atto estremo di libertà, al fine di porre finalmente termine ai tormenti e alle passioni dell’animo umano. La riflessione porta in seguito Foscolo a scorgere però una via d’uscita alla sua sofferenza proprio nelle illusioni (quali l’amore, la poesia e il mito classico del bello), che assumono così un carattere consolatorio perché credere e rifugiarsi in esse diventa l’unico modo che l’uomo dispone per reagire di fronte al Male. Altro rifugio è l’arte, la quale, riproducendo l’armonia universale che ristora l’uomo dalle fatiche, realizza la bellezza ideale; il fruitore di questa bellezza si purifica dalle passioni rasserenando l’animo. L’arte è quindi sintesi tra elemento passionale e classico, tra romantico e mirabile e il suo effetto sull’uomo è quindi quasi catartico. L’illusione aiuta in tal modo Foscolo, in un certo senso, a riscattarsi, perché diventa anche impegno operativo nella società, fungendo da stimolo per darsi concretamente da fare per il bene comune: esaltando il passato (le tradizioni, la famiglia, la patria) l’uomo può migliorare il presente e la società in cui vive, favorendo il progresso umano.

[modifica] Leopardi e il pessimismo

Leopardi
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Leopardi

Secondo Giacomo Leopardi l’uomo è per sua natura destinato all’infelicità. Egli infatti aspira ad un piacere duraturo e infinito e finisce ben presto con lo scoprire che ciò non è possibile; si forma quindi un senso di insoddisfazione perpetuo che non fa altro che generare continuamente dolore, ovvero un vuoto nell’anima che porta a concepire il senso della nullità di tutte le cose. L’infelicità non è quindi altro che l’assenza e il non raggiungimento del piacere. In una prima fase del suo pensiero, soprattutto nel periodo che egli definisce “nera, orrenda e barbara malinconia” concepisce l’idea secondo cui la profonda infelicità dell’uomo moderno consisterebbe nel suo graduale arricchimento conoscitivo e nel progresso della civiltà e della ragione, la quale ha spento gli ultimi focolai di resistenza delle illusioni, facendo allontanare l’uomo da quel paradiso di felicità nel quale gli antichi vivevano ‘offuscati’ dal velo arabescato dell’illusione.

L’infelicità sarebbe quindi da imputare fondamentalmente alla storia: il pessimismo storico è quindi il pensiero secondo cui l’infelicità è sempre esistita, ma gli antichi non se ne accorgevano o non se ne rendevano conto, perché distratti dalle illusioni e, in virtù di ciò, meno consapevoli della presenza del Male. Per Leopardi le epoche passate sono quindi migliori di quelle presenti. La natura, in questa fase del pensiero leopardiano, è ancora considerata benigna, perché, provando pietà per l’uomo, gli ha fornito l’immaginazione, ovvero le illusioni, le quali producono nell’uomo una felicità che non è reale perché mascherano la vera realtà che è fatta di sofferenza. Nel mondo dei moderni queste illusioni sono però andate perdute perché la ragione ha smascherato il mondo illusorio degli antichi e ridato vita alla realtà nuda e cruda dei moderni.

Terminata la fase del pessimismo storico Leopardi perviene a quella del pessimismo cosmico, giungendo alla famosa quanto fortunata concezione della natura come maligna, cioè di una natura che non vuole più il Bene e la felicità per i suoi ‘figli’. La natura è infatti la sola colpevole dei mali dell’uomo; essa è ora vista come un organismo che non si preoccupa più della sofferenza dei singoli, ma che prosegue incessante e non curante il suo compito di prosecuzione della specie e di conservazione del mondo, in quanto meccanismo indifferente e crudele che fa nascere l’uomo per destinarlo alla sofferenza. Leopardi sviluppa quindi una visione più meccanicistica e materialistica della natura, una natura che egli con disprezzo definisce ‘matrigna’. L’uomo deve perciò rendersi conto di questa realtà di fatto e contemplarla in modo distaccato e rassegnato, come un saggio stoico che pratica l’atarassia e la lucida contemplazione del reale. Il destino dell’uomo, ovvero la sua malattia, è in fondo lo stesso per tutti. In questa fase non ci sono reazioni titaniche perché Leopardi ha capito che è inutile ribellarsi, ma che bisogna invece raggiungere la pace e l’equilibrio con se stessi, in modo da opporre un efficace rimedio al dolore. Ed è proprio la sofferenza che Leopardi reputa la condizione fondamentale dell’essere umano nel mondo, arrivando perfino a dire che “tutto è Male”. Significativo è, a questo proposito, un passo tratto dal Canto notturno di un pastore errante dell’Asia (vv. 100-104), dal quale emerge tutta la poca fiducia verso la condizione umana nel mondo da parte del poeta, una condizione fatta di sofferenza e di diuturna infelicità.

Questo io conosco e sento,
che degli eterni giri,
che dell’essere mio frale,
qualche bene o contento
avrà fors’altri; a me la vita è male.


[modifica] Montale e il male di vivere

Per Eugenio Montale quella dell’uomo è una condizione altrettanto difficile e che non lascia tuttavia spazio a molte illusioni. Attraverso gli elementi descritti nelle sue poesie l’autore identifica la situazione dell’uomo nel mondo, risultando estraneo sia alla realtà che all’Assoluto.

Infatti l’uomo moderno non riesce a capire né l’una né l’altra cosa: tutto ciò porta ad una paralisi conoscitiva per la quale l’individuo rimane sbalordito di fronte ad una realtà che non riesce a conoscere a fondo. La poetica di Montale (il quale fa ricorso all’allegoria – l’emblema – e non alla via dell’analogia) è quindi definita del ‘correlativo oggettivo’: ogni oggetto è emblema di una condizione esistenziale. Questo avviene anche nella seguente celeberrima poesia.

Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l’incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.
Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.

In questa lirica, concisa ed essenziale ma al tempo stesso notevolmente efficace, il male di vivere si configura come la condizione esistenziale per eccellenza dell’uomo moderno, che Montale non spiega ma incarna in alcuni elementi (quali, ad esempio, il rivo strozzato, l’accartocciarsi della foglia e il cavallo stramazzato). Nella lirica risalta inoltre un forte contrasto fra il Male che affligge l’uomo e la divina Indifferenza, la quale è rappresentata come l’unica vera soluzione di fronte al Male. Quest’indifferenza è chiarita da alcuni eloquenti esempi che rimandano ad immagini quali la freddezza di una statua, l’estraneità dai problemi umani e terreni di una nuvola e la libertà di un falco, tutti emblemi di una realtà e di una condizione umana.

Di fronte a questa dura verità l’uomo deve ritirarsi e osservare il corso degli eventi senza porsi problemi: è questo l’unico modo per sopportare il vuoto e l’aridità della condizione umana. Montale tenta infine di instaurare, nelle sue poesie, un rapporto di solidarietà col lettore, consapevole del fatto che entrambi – egli stesso e il suo interlocutore – si trovano nella medesima situazione di sofferenza, e stimola, in questo senso, un rapporto di compassione (dal latino cum-pati, ‘sentire assieme’) che aiuti a sopportare meglio il male di vivere. Questa ‘sopportazione’ e consapevolezza del dolore possono quindi essere riconducibili e giustificabili dal cosiddetto ‘stoicismo montaliano’.


[modifica] Alcuni archetipi letterari

Nella letteratura mondiale numerosi sono i testi che possono essere considerati tipici modelli del Male. Alcuni sono particolarmente significativi. Questi archetipi offrono quindi interessanti spunti di riflessione perché incarnano delle vere e proprie manifestazioni del Male nel mondo.

[modifica] Raskol’nikov

Raskol’nikov personaggio principale del romanzo Delitto e castigo, è da considerare come un falso esemplare di Male, un prototipo del superuomo tipicamente dannunziano, ovvero di quell’intellettuale animato di buoni propositi e disposto a tutto per realizzarli, che finisce per diventare un inetto, perché incapace di raggiungere le mete prefissate e di trovare un posto all’interno della società.

L’ideale dell’ascesa sociale anima il nostro Raskol’nikov, comune studente universitario afflitto dalle ristrettezze economiche personali e familiari nella Pietroburgo arretrata di metà Ottocento. Infervorato da buone intenzioni ma non curante del fatto che il fine non giustifica machiavellicamente il mezzo, è pronto ad uccidere il “pidocchio” la vecchia tirchia che presta denaro, per prendere tutti i suoi averi e farne un uso migliore che tenerli in un baule. Raskol’nikov tuttavia non è un personaggio maligno in senso vero e proprio, perché la sua anima non è corrotta e degenerata: egli tuttavia ammetterà di avere “un cuore cattivo”.

Accanto a Raskol’nikov Dostoevskij dipinge efficacemente e realisticamente tutta una serie di tipi che, sullo sfondo di una tetra Pietroburgo dell’Ottocento e per una caratteristica o per un altra, fungono da rappresentanti della condizione di dolore dell’esistenza umana, continuamente inficiata dall’inevitabile presenza del Male. La narrazione del romanzo perviene così a delineare tutta una serie di ‘teatrini’ della vita nei quali prendono parte i più disparati personaggi che sono, al tempo stesso, vittime e artefici del Male.

Dostoevskij descrive così di madri in pena per la sorte dei figli, di figlie costrette alla prostituzione per esigenze economiche, di donne malate e fisicamente a pezzi ma costrette a portare avanti da sole le sorti dell’intera famiglia, e infine di uomini che rifuggono nel bere per dimenticarsi dei problemi familiari. Dalla parte opposta c’è una società colpevole di produrre esemplari depravati, vecchie aguzzine pronte a sottrarre fino all’ultimo centesimo alla povera gente, baldi giovani animosi e rivoluzionari pronti a tutto, oltre alla presenza assillante di una polizia decisa a ogni sorta di tortura psicologica pur di estorcere con ogni mezzo la verità, vera o presunta che essa sia.

Arrivando tuttavia all’idea che esistono certi individui per i quali è giusto e lecito compiere determinate azioni, Raskol’nikov perviene anche alla giustificazione (che vale, si badi bene, solo per questi individui) dell’omicidio, visto come una buona causa per liberare il mondo dai ‘pidocchi’ dannosi e insignificanti. Esso ha però una duplice valenza, perché si configura anche come una buona spinta economica, che lo aiuti a completare gli studi e a tirare avanti senza gravare sulla famiglia ma anzi aiutandola.

Raskol’nikov giunge anche ad uno stato morboso nel quale si sente gravare sulla sua anima una colpa che lo opprime, non tanto per la paura della ‘forca’, quanto per il fatto di aver compiuto un gesto che non gli era lecito compiere, perché si è reso conto troppo tardi di non essere mai stato tra quel gruppo di eletti a cui tutto è permesso. Raskol’nikov si sente infatti perseguitato, come se tutti sapessero ogni cosa, conoscessero l’orribile gesto che ha commesso e fossero pronti a tendergli da un momento all’altro una trappola fatale. Una auto-persecuzione psicologica che si può solamente spiegare col senso di colpa per un gesto che non doveva e non poteva compiere (“A volte un uomo patisce mezz’ora di terrore mortale davanti a un brigante, ma quando alla fine gli mettono il coltello alla gola, gli passa perfino la paura”).

Egli perviene così alla consapevolezza di essere nient’affatto un super-uomo, bensì un inetto. Dopo il delitto quindi il castigo, sentito come esigenza personale e consapevole di redimersi dalla colpa commessa, di urlare al mondo intero il proprio orribile atto, in modo da sentirsi giustamente condannato ma anche, implicitamente, liberato dall’angoscioso tormento del peccato commesso, quindi perdonato e riscattato, riabilitato nella vita e nella società (“Accettando di andare a soffrire, non lavi forse la metà del tuo delitto?”, gli dice Sonja). Grazie alla sua ammissione Raskol’nikov evita così la condanna a morte e viene relegato ai lavori forzati in Siberia, dove l’amata Sonja lo seguirà, promettendogli di stargli sempre vicino, foss’anche in capo al mondo.

[modifica] Salomè

Salomé di Franz von Stuck
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Salomé di Franz von Stuck

La Salomè è una fortunata tragedia che Oscar Wilde scrisse per il teatro e che fu portata sul palco alla fine dell’Ottocento, non senza critica riguardo alle numerose tematiche dissacranti in essa contenute.

Salomè è figlia di Erodiade e figliastra di Erode, tetrarca di Giudea. Essa si innamora follemente, non si sa se per puro capriccio e se realmente, del profeta Iokanaan, le cui predizioni risuonano quanto mai tetre. Ai suoi continui e secchi rifiuti di baciarla Salomè ordina a Erode di tagliargli la testa, il quale prima si oppone, poi, in virtù di una promessa fatta alla figliastra, accondiscende. Salomè può così finalmente baciare il suo amato Iokanaan senza venir più rifiutata. Erode ha pertanto occasione di dire alla consorte Erodiade: «E’ mostruosa, tua figlia, è davvero mostruosa. E ciò che ha fatto è un delitto immenso. E’ un delitto contro un Dio scono­sciuto, ne sono sicuro.»

Salomè è la tipica femme fatale decadente, ovvero colei che ammalia l’uomo per poi condurlo alla distruzione e alla rovina. Solo un essere nelle cui vene scorre una tale accondiscendenza al Male può volere un’azione così spregevole, ovvero l’uccisione di un uomo al fine di soddisfare e sopperire ai propri effimeri bisogni della carne. Salomè è un essere perverso che, in quanto tale, incarna la concezione secondo cui il peccato è legato alla presenza della figura femminile nel mondo. Dice infatti Iokanaan: «Indietro, figlia di Babilonia! E’ con la donna che il male è entrato nel mondo. Non parlarmi. Io non voglio ascoltarti. Io ascolto solo le parole del Signore Iddio.»

[modifica] Mr. Hyde

Se da un lato la reazione anti-vittoriana si manifestava nell’estetismo (come fece Wilde), dall’altro essa si palesava nella ricerca dell’esotismo (come fece appunto Stevenson). L’analisi del Male e lo studio delle ambiguità dell’animo umano appassionarono e affascinarono anche il noto scrittore edimburghese Robert Louis Stevenson, coevo di Wilde e autore fra l’altro, del celebre capolavoro Lo strano caso del dr. Jekyll e mr. Hyde. In quest’opera, che colpisce innanzitutto per la trama avvincente e per un genere misto fra giallo, noir e racconto del mistero e del terrore, viene evidenziato in maniera molto significativa quel naturale ‘sdoppiamento’ che caratterizza ed è presente in ogni essere umano e che si configura come una rottura dell’integrità della persona, come la scissione del Bene dal Male e, in definitiva, come lo sdoppiamento della stessa coscienza umana.

L’analisi stevensoniana parte infatti dalla constatazione di “una diuturna conflittualità fra due dimensioni [...] che riconosce come l’uomo non sia unico bensì duplice.” Il racconto è una parabola del Male, esso si interpreta come se dietro una sola persona si possano nascondere, due differenti tendenze comportamentali (o semplicemente personalità), una vòlta al Bene, l’altra al Male assoluto, che continuamente in contrasto fra di loro in questa tentano di prendere il dominio dell’individuo.

Jekyll voleva che ciò non accadesse e, per fare questo, doveva per forza isolare la parte cattiva (Hyde) da quella buona (Jekyll), permettendo in tal modo che una sola persona potesse seguire due strade completamente opposte, e realizzarsi in entrambe. La storia narra infatti delle nequizie, delle infamie e dei delitti commessi dall’alter ego dello stimatissimo dottor Jekyll, uomo rispettato all’interno della moralissima società vittoriana sia per il suo nobile lavoro sia per la sua invidiabile condotta morale, che, osando faustianamente e inavvertitamente sfidare la natura e le sue leggi, ha sentenziato e deciso la propria condanna e la propria fine. Mr. Hyde si configura come un uomo spietato che reca poco o nulla di umano nei suoi tratti, emblema del demonio e della scelleratezza umana, colui e il solo che, “nel novero degli umani, era il male allo stato puro”.

Una sfida contro la natura, quindi, quella di Jekyll (il quale era fermamente convinto di riuscire a domare alla meglio la situazione), ma anche un peso troppo grande, che nè la sua anima nè il suo corpo, entrambi vittime di continui e incontrollabili mutamenti (e trasformazioni), riusciranno più a sopportare.

L’intrinseco e primordiale dualismo presente in Jekyll era però stato esasperato e portato alle estreme conseguenze, e ora il dottore si trovava a voler mettere una volta per tutte la parola fine alla sua maledizione, a volersi disfare cioè di Hyde, avendo oramai perso il controllo delle proprie metamorfosi e rintanatosi per questo motivo nel laboratorio. E, pensando alla scissione e allo scioglimento di questo dualismo, ovvero alla definitiva separazione del Male dal Bene, Jekyll non riesce a darsi pace e, prima di venire definitivamente sorpreso sotto le temibili fattezze del suo doppio (che esercitava oramai il quasi completo potere su di lui), si toglie la vita, mettendo così fine alla turpe esistenza di Hyde ma anche alla propria.

[modifica] Voci correlate

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